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mercoledì 8 novembre 2017

Recensione: Gli anni della leggerezza di Elizabeth Jane Howard

Titolo: Gli anni della leggerezza
Autore: Elizabeth Jane Howard
Traduttore: Manuela Francescon
Casa editrice: Fazi Editore
Numero di pagine: 606
Formato: Cartaceo

È l'estate del 1937 e la famiglia Cazalet si appresta a riunirsi nella dimora di campagna per trascorrervi le vacanze. È un mondo dalle atmosfere d'altri tempi, quello dei Cazalet, dove tutto avviene secondo rituali precisi e codici che il tempo ha reso immutabili, dove i domestici servono il tè a letto al mattino, e a cena si va in abito da sera. Ma sotto la rigida morale vittoriana, incarnata appieno dai due capostipiti affettuosamente soprannominati il Generale e la Duchessa, si avverte che qualcosa sta cominciando a cambiare. Ed ecco svelata, come attraverso un microscopio, la verità sulle dinamiche di coppia fra i figli e le relative consorti. L'affascinante Edward si concede svariate amanti mentre la moglie Villy si lacera nel sospetto e nella noia; Hugh, che porta ancora i segni della grande guerra, forma con la moglie Sybil una coppia perfetta, salvo il fatto che non abbiano idea l'uno dei desideri dell'altra; Rupert, pittore mancato e vedovo, si è risposato con Zoe, un'attrice bellissima e frivola che fatica a calarsi nei panni della madre di famiglia; infine Rachel, devota alla cura dei genitori, che non si è mai sposata per un motivo ben preciso. E poi ci sono i nipoti, descritti mirabilmente nei loro giochi, nelle loro gelosie e nei loro sogni, in modo sottile e mai condiscendente, dalle ingenuità infantili alle inquietudini adolescenziali. Ma c'è anche il mondo fuori...

Buon mercoledì cari lettori! Oggi vi recensisco il primo libro di una saga molto chiacchierata e che ha visto il suo ultimo libro pubblicato qua in Italia solo un paio di mesi fa, a settembre. Si tratta del primo volume della saga dei Cazalet e la mia è una rilettura che mi ha suscitato considerazioni molto differenti del mio primo approccio.
Ormai più di un anno fa terminavo Gli anni della leggerezza. Nonostante mi fosse abbastanza piaciuto, non ero riuscita comunque ad evitare un generico senso di delusione. Dopo tutto il clamore attorno a questo libro, mi sarei aspettata di più. Ho poi letto il secondo e lì mi sono fermata. I successivi volumi sono andati accumulandosi ed io ho deciso di aspettare di possedere l'intera serie per rileggere i primi libri e poi buttarmi subito sui seguiti. Ed è ciò che sto facendo adesso. Attualmente ho in rilettura il secondo e non posso che essere felice di non aver abbandonato la famiglia Cazalet al suo destino.
Come molti di voi già sapranno, quella dei Cazalet è un'imponente saga familiare. La Howard ha sfornato quattro libroni e un libro di medie dimensioni su questa affollata famiglia e il motivo è presto detto: in centinaia e centinaia di pagine trovano voce innumerevoli PoV e la Howard non ha trascurato nessuno: ci sono gli adulti e i bambini piccoli, i nobili e i servitori. A ognuno sono dedicati piccoli e agili paragrafi e la narrazione scorre con la fluidità e la placidità di un fiume. Perchè non succede quasi nulla in questo primo romanzo. La Howard ci concede un bel po' di pagine per immergerci nell'atmosfera di questa famiglia, per farci conoscere ogni personaggio. E, se agli inizi il lettore si ritrova spaesato e un po' confuso in questa girandola di nomi e parentele, ben presto li riconoscerà come se fossero veri parenti.
Di questo mi sono accorta nella mia rilettura. A più di un anno dal primo approccio, ogni personaggio era rimasto scolpito nella mia memoria e quei sottili legami che li uniscono tutti e che tanto mi avevano fatta penare all'inizio erano rimasti chiari e solidi, permettendomi di riconoscere immediatamente ogni personaggio. Mi sono sentita subito a casa, fra i Cazalet. Questa grande e disfunzionale famiglia è riuscita a entrare nel mio cuore e non me ne ero neanche accorta! Davvero, tornare fra di loro è stato naturale come respirare. E qui ho avuto una rivalutazione totale dello stile di scrittura della Howard, che mi era sembrato si scorrevole ma anche abbastanza superficiale. La verità è che la penna di quest'autrice possiede un'incredibile leggerezza. Con leggerezza ci descrive i personaggi, passa dall'uno all'altro e lascia che siano le loro vive voci a presentarli al lettore. Non si intorbida nelle loro riflessioni più cupe, non si appesantisce con monologhi o digressioni e per questo, all'inizio, mi era sembrato uno stile superficiale. E invece è ben più efficace e potente questa distaccata narrazione che non altre scritture più analitiche. I personaggi risultano vividi al ricordo, alla rilettura mi ricordavo le loro caratteristiche principali e avevo come l'impressione che la Howard fosse riuscita a catturare su carta l'ambiguità e la vastità dell'animo umano. Questa famiglia è infatti un affresco di tutto ciò che l'umanità può offrire. I temi che la Howard affronta con questa "eleganza salottiera" sono importanti e, talvolta, tragici: si va dall'omosessualità agli abusi, ai rapporti fra le persone alle difficoltà del crescere.
Possiamo dividere in tre grossi gruppi la famiglia Cazalet.
Innanzitutto abbiamo i domestici, invisibili ma onnipresenti, ognuno là con le proprie stranezze e i propri sogni.
Poi ci sono i bambini, la giovane generazione Cazalet, e ce ne sono un bel po'! A loro la Howard - cosa innovativa per una scrittrice dell'epoca - dedica tantissima attenzione e ci mostra un mondo che è lo specchio di quello degli adulti, ma ancora innocente. I sentimenti sono nuovi e travolgenti, più genuini e puri di quelli ormai corrotti degli adulti. La Howard è riuscita a conservare e a trasmettere un pezzo d'infanzia e come lettrice non posso che esserne affascinata e ringraziare.
Infine, abbiamo gli adulti. Fra di loro è il trionfo dell'incomunicabilità. Le cose importanti vengono taciute e le frivolezze sono le uniche espresse. Qui si inserisce una vena di amarezza, una nota di oscurità che si protende verso il mondo dell'infanzia.
Nonostante sia un romanzo corale, emergono comunque tre protagoniste, a mio parere, e sono le tre cugine Louise, Polly e Clary, ognuna figlia di uno dei tre fratelli Cazalet. In ognuna di loro sembra che la Howard abbia lasciato un pezzetto di sè stessa e le ho amate tutte, anche se in particolare Polly e Clary. 
Questo è un romanzo d'introduzione e probabilmente per questo in molti lo hanno trovato lento. Devo essere sincera, io non ho mai avuto quest'impressione, neanche alla prima lettura, anzi! Una delle cose che notai subito all'epoca fu proprio la facilità con cui le pagine scorrevano e l'abilità della Howard nell'incastrarti nel suo mondo. Credo che questo effetto sia dovuto all'impiego di tanti paragrafi brevi, che permettono di non soffermarsi troppo su un singolo personaggio e che, secondo me, impediscono d'annoiarsi.
Come rilettura è stata senz'altro un successo! Come vi dicevo, sono già alle prese con il seguito e ringrazio le mie mani bucate - solo coi libri però! - che mi consentono ora di leggere tutta la serie praticamente di filaxD
E voi, avete letto la saga dei Cazalet? Se si, vi è piaciuta?

Virginia

lunedì 23 ottobre 2017

Recensione: Il racconto dell'ancella di Margaret Atwood

Titolo: Il racconto dell'ancella
Autore: Margaret Atwood
Traduttore: Camillo Pennati
Casa editrice: Ponte alle Grazie
Numero di pagine: 398
Formato: Cartaceo

In un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, gli Stati Uniti sono divenuti uno Stato totalitario, basato sul controllo del corpo femminile. Difred, la donna che appartiene a Fred, ha solo un compito nella neonata Repubblica di Galaad: garantire una discendenza alla élite dominante. Il regime monoteocratico di questa società del futuro, infatti, è fondato sullo sfruttamento delle cosiddette ancelle, le uniche donne che dopo la catastrofe sono ancora in grado di procreare. Ma anche lo Stato più repressivo non riesce a schiacciare i desideri e da questo dipenderà la possibilità e, forse, il successo di una ribellione. Mito, metafora e storia si fondono per sferrare una satira energica contro i regimi totalitari. Ma non solo: c'è anche la volontà di colpire, con tagliente ironia, il cuore di una società meschinamente puritana che, dietro il paravento di tabù istituzionali, fonda la sua legge brutale sull'intreccio tra sessualità e politica. Quello che l'ancella racconta sta in un tempo di là da venire, ma interpella fortemente il presente.

Buongiorno a tutti e buon inizio settimana! Oggi vi parlo di un libro piuttosto chiacchierato fino a qualche tempo fa, regalatomi da un'amica (grazie Fede:-*) per il mio compleanno.
Sebbene conoscessi questo romanzo da anni, non mi aveva mai attirata (il distopico non è il genere che prediligo e la trama non mi ispirava troppo). Poi, con la serie tv, tutti hanno iniziato a recuperarlo e, in breve, mi sono trovata la bacheca di facebook invasa da commenti entusiasti. A questo punto la mia curiosità era fortissima e ho deciso di provare a dare un'opportunità a questo libro.
E sono felicissima di averlo fatto.
Pubblicato nel 1985, questo romanzo parla di argomenti che sono, purtroppo, tristemente reali e attuali. La questione femminile - argomento che molti uomini liquidano con una sbuffata - è sempre stata scottante. A dirla tutta, se guardiamo ai tanti secoli trascorsi e ai massacri che hanno sempre caratterizzato l'umanità, vediamo come la persecuzione e l'imposizione violenta nei confronti della donna siano sempre state una costante. In ogni circostanza, la donna è quella che più ha subito, e ancora subisce. La Atwood lo ha capito molto bene e ha gioco facile nel dipingere la civiltà Occidentale - quella che si è sempre ritenuta più avanzata - per quella che è, usando lo stratagemma del distopico per mostrare con più esattezza possibile come anche la società più evoluta covi in sè le stesse meschinità e intolleranze dei Paesi ritenuti culturalmente inferiori. 
In ragione di ciò, ovvero della sua profonda verosimiglianza e attualità, Il racconto dell'ancella è spaventosamente attuale e per questo turba. Turba perchè, decenni dopo la sua pubblicazione, i meccanismi di pensiero alla base di determinate azioni sono esattamente gli stessi, perchè è terribile vedere come si nasconda una volontà di dominio e supremazia disgustose dietro alla scusa più vecchia del mondo: lo facciamo per proteggervi. 

" Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La libertà di e la libertà da. Nei tempi dell'anarchia, c'era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo."

Un tempo, in quelli che corrispondono abbastanza all'odierna situazione in Occidente, c'era la libertà di - ovvero, semplicemente, la libertà di fare. Nel bene e nel male - e nonostante le leggi, in alcuni casi - c'era il libero arbitrio. Ognuno ne fa poi ciò che vuole e ciò ha portato, nella realtà inventata dalla Atwood, alla libertà da. Le donne non devono più preoccuparsi di essere molestate, violentate; non devono lavorare, ma solo accettare il loro destino di madri. La donna vista come mero contenitore, il sesso finalizzato unicamente alla procreazione e alla continuazione della specie. Non per nulla la distopia di questo libro è a carattere teocratico, perchè mi sembra piuttosto evidente che la religione - nella sua forma più estrema, ovviamente - si è sempre accompagnata alla dittatura, ne è sempre stata la scusa. Si sono uccise più persone in nome di Dio che in nome di qualunque altro ideale. 
Dicevo, la donna come madre, unico modo in cui la donna può essere di una qualche utilità. Il sesso non per piacere ma per un fine più alto - solo per le donne, però. Gli uomini sono una questione a parte, che affronterò dopo. Questa visione della donna vi ricorda qualcosa? Una visione durata secoli e che, in fondo, continua a influenzarci? Magari nel momento in cui tutti si sentono in dovere di chiederti perchè non fai figli, se sei accompagnata e cominci ad essere grande, riservandosi il diritto di giudicarti, per questo. L'accoppiata donna/madre è una delle più profondamente radicate nella nostra cultura ed è difficile uscire da questi schemi. Peggio: la donna spersonalizzata, deumanizzata. La donna, di nuovo, come semplice contenitore.
Ma non tutto è oro quel che luccica (e qui non luccica proprio un bel niente). In una realtà dove la donna è "protetta", dove le Ancelle sono curate e vezzeggiate nella speranza di vederle partorire figli sani, il pregiudizio serpeggia. E così conosciamo un altro fenomeno fin troppo reale: quello delle donne che giudicano e disprezzano altre donne. Le Ancelle sono le puttane, quelle che si congiungono con uomini già sposati per procreare. Le Mogli le odiano - perchè si sentono rifiutate, perchè invidiano i loro grembi fertili; le Marte - le domestiche - le disprezzano, perchè non lavorano e vivono nel lusso. Con gli uomini, a parte i momenti del sesso - agghiaccianti, ma ne riparleremo - non c'è interazione, pena la morte. Le Ancelle sono avvolte in vesti rosse per distinguerle a colpo dì'occhio; vesti informi, che non mostrano le curve e non tentano; e portano velette bianche, che impediscono loro di spaziare con la vista. Camminano con la testa bassa e parlano piano e poco. Nella giornata non hanno altro da fare che fissare il vuoto nella loro stanza, rattrappite in sè stesse.

" Un letto, a una piazza. Materasso semiduro, coperto da un copriletto bianco di lana. Null'altro avviene nel letto che il dormire; o il non dormire. Cerco di non pensare troppo. Al pari di altre cose, adesso, il pensiero dev'essere razionato. Ci sono pensieri che diventano intollerabili quando ci si sofferma troppo. Il pensare può nuocere e io sono decisa a resistere. So perchè non c'è il vetro sull'acquerello di giaggioli blu, e perchè la finestra si apre solo in parte, e perchè è di cristallo infrangibile. Non temono che ce ne andiamo di nascosto. Non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro, se hai un oggetto con un bordo tagliente."

Ciò che fanno è lasciarsi vivere. Ma alienata è la condizione di ogni donna. Gli unici ruoli che sono previsti per loro sono quelli di Ancella, Moglie e Marta. L'unica eccezione sono le Zie, esempio di come ognuno cerchi solo di preservare sè stesso in condizioni di crisi: donne che indottrinano altre donne. Ci credono davvero? Forse. Dopotutto, ci viene detto che furono molte le donne a gioire di questo ritorno ai "sani valori tradizionali", agli inizi. Di nuovo, vi ricorda qualcosa? Vi ricorda certi discorsi? Come commenta però Difred con amaro divertimento, sono state le prime vittime di sè stesse. Probabilmente non si aspettavano di rimanere intrappolate nella stessa maglia tessuta da loro. Perchè questo mondo non ha bisogno di donne che non siano uteri e le Mogli dei Comandanti sono le prime a vivere un'esistenza vuota, priva di significato. Il loro unico passatempo e filare per i soldati al fronte, farsi visita l'un l'altra, sperare ardentemente che l'Ancella di turno rimanga incinta, per potersi appropriare del figlio e togliersi finalmente di casa quel promemoria vivente della loro incapacità: non possono avere figli, sono sterili.

" Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe: << Dammi dei figli, altrimenti muoio. >> Giacobbe si adirò contro Rachele e rispose: << Tengo io forse il posto di Dio che ti ha negato il frutto del grembo? >>
Allora ella disse: << Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anch'io potrò avere figli per suo mezzo >>

Genesi, 30; 1-3"

Questo pezzo, tratto dalla Bibbia, è posto a introduzione del romanzo e, scopriamo, è stato preso dal nuovo regime come giustificazione divina per quello che è, a tutti gli effetti, una poligamia, la giustificazione che si sono dati per un atto che la loro stessa religione non riconosce. Trovato un precedente nella Genesi, dunque, i vecchi e i potenti sfruttano le giovani per avere ciò che non possono avere: i figli. Tutto è partito, infatti, con la carenza cronica di figli, perchè molte donne non ne volevano avere e altre abortivano. Nel momento di massima (per ora) libertà decisionale della donna, un nuovo regime si afferma e, in nome del bisogno di popolare il mondo con nuove generazioni, toglie alle donne tutti i diritti. Ma anche alcuni uomini sono penalizzati da questo nuovo assetto, perchè il sesso può essere praticato solo con le Mogli o le Ancelle e solo chi può permettersele le ha. Succede dunque che sono i vecchi ad aver diritto alle Ancelle e serpeggia il dubbio che queste non rimangano incinta perchè a non essere più in grado sono i Comandanti stessi - ma non si può dire, è contro la legge. Allo stesso modo, i figli concepiti dalle Ancelle vengono loro subito sottratti e diventano di diritto figli delle Mogli, a loro volta sterili o, più spesso, vecchie. Altro sopruso, dunque: il vecchio sul giovane (ma siamo in Italia, no? Certe situazioni non ci giungono nuove).

" (...) Al centro, la tentazione era qualcosa di più che mangiare e dormire. Sapere era una tentazione. Ciò che non sapete non vi tenterà, diceva Zia Lydia.
Forse non voglio sapere veramente ciò che succede. Forse preferisco non sapere. Non sopporto di sapere. La Caduta è stata una caduta dall'innocenza al sapere. "

Altro concetto cardine: la tentazione - e il pericolo - della conoscenza. Su questo la letteratura si è espressa fin dai suoi primordi - dall'episodio biblico della mela (citato nel pezzetto stesso che vi ho riportato) fino a Leopardi e alla sua caduta delle illusioni. La conoscenza è bene o male? Il confine fra la conoscenza dannosa e il male necessario è sottilissimo e non fisso, oscilla continuamente. Una cosa però è sicura, oltre a tutta la teoria: la conoscenza è pericolosa. Non a caso ogni dittatura, come prima cosa, intacca il sapere: riforma le scuole, seleziona i libri, manipola le notizie. E, non sorprendentemente, la prima cosa che viene proibita alle donne è leggere. Le donne non possono leggere, sono private di ogni stimolo creativo e intellettuale (a che serve, siamo solo vagine, no?), che siano Marte, Mogli o Ancelle. La conoscenza è pericolosa perchè mostra altre realtà e può far pensare in maniera autonoma. I governi autoritari ci vogliono ignoranti per poterci plasmare. Non per nulla, Zia Lydia dirà che la loro è una generazione di passaggio, destinata a soffrire nell'adattamento, mentre le generazioni successive sarebbero state felici. Con "di passaggio" intende che loro possono ricordare un altro mondo, un'altra realtà, mentre con lo scorrere degli anni la memoria di ciò che è stata verrà manipolata, cancellata, finchè ognuno penserà che le cose non sono mai andate diversamente.
Una delle cose che più mi ha turbata, infatti, è la velocità con cui un regime all'apparenza del tutto opposto al vecchio si è imposto e come, a distanza di pochissimi anni (non è passato neanche un decennio) uomini e donne che ricordano bene un mondo molto diverso vi si siano adattati come se altre realtà non siano mai esistite. Ma in fondo, se ci pensiamo, è poi così che è sempre avvenuto. Sarebbe bello pensare che rivoluzioni così epocali abbiano incontrato strenua resistenza, ma la verità è che le peggiori dittature si sono instaurate con brevi tempistiche e senza quasi resistenza. Questo, a mio parere, un po' per la sorpresa e la paura ma anche, fondamentalmente, perchè si basano su paure ataviche e irrazionali, perchè si profilano in momenti di crisi e trovare un capro espiatorio alle sofferenze e difficoltà di un popolo ne assicura almeno un iniziale consenso (vi ricorda qualcosa?). Ma io non sono un'esperta e il fenomeno è sicuramente più complesso. Mi limito a riportare mie riflessioni.
Ultimissime considerazioni. Questo libro turba perchè parla di una realtà estrema ma assolutamente possibile (i Paesi islamici ne sono un esempio). Il suo merito è di non fare un discorso fine a sè stesso: la Atwood indaga sulla mentalità alla base di certe situazioni. Per questo è possibile che la distopia che costruisce si avveri: perchè noi per primi, oggi, diciamo le stesse cose. Le donne della nuova America sono alienate, usate, asessuate. Se una donna viene stuprata è perchè ha tentato, ha provocato; e l'uomo che, si sa, "ha le sue esigenze", non ha mai colpe. Questa è una società fatta da e per gli uomini. Quella della Atwood e la nostra, che ne è potenziale madre. Ma capiamoci bene: la Atwood non parla di odio per gli uomini, perchè il femminismo non è questo. La Atwood condanna il patriarcato, che è una struttura sociale promossa da uomini come da donne. Anche gli uomini sono alienati in una società simile e il libro della Atwood, pur concentrandosi per la maggior parte sulla condizione femminile, ce lo mostra bene.
A turbare è lo stile di questa scrittrice. Che, a mio modesto parere, scrive benissimo. La scrittura ha, in questo caso, una perfetta corrispondenza coi contenuti. È uno stile lento - la trama è poverissima -, quasi rattrappito in sè stesso, come la voce narrante. Difred si rinchiude, sprofonda in sè stessa e la scrittura lo riflette benissimo. Spezzato, con qualche accenno di stream of consciusness, non lineare. Ricordi, riflessioni ed eventi si susseguono; a volte Difred inventa e lo sappiamo solo dopo, ma le sue invenzioni, per lei come per il lettore, rendono talvolta torbida la realtà. E il finale è un esempio perfetto di questa eterna indeterminatezza, indeterminatezza che colpisce le donne in primis.
Questo libro mi è piaciuto moltissimo e mi ha dato molto materiale su cui riflettere. Mi ha turbata per la sua aderenza alla realtà, mi ha ammaliata con la sua scrittura. Lo consiglio a tutti, uomini e donne, e mi riservo di mettere le mani su tutto ciò che è reperibile in Italia di questa scrittrice.

Virginia



giovedì 5 ottobre 2017

Recensione: Jezabel di Irene Nemirovsky

Titolo: Jezabel
Autore: Irene Nemirovsky
Traduttore: Alessandra Maestrini
Casa editrice: Newton Compton
Numero di pagine: 147
Formato: Digitale

La bellissima ma non più giovane ereditiera Gladys Eysenach è chiamata in tribunale per rispondere di omicidio: ha ucciso un ragazzo, suo amante. Ma come ha fatto Gladys a ridursi a quel punto? Perché invoca una condanna severa e qual è la verità che vuole assolutamente tenere nascosta, che la consuma, rendendola simile a Jezabel, l’ombra inquieta dell’Athalie di Racine? Il romanzo ricostruisce la sua avventurosa e tragica vicenda, ci accompagna nel suo passato a Londra, New York, Nizza, Parigi, ci fa rivivere la Belle Époque dei ricchi prima che la seconda guerra mondiale spazzi via tutto per sempre.


"Rimane sempre, in fondo al cuore, il rimpianto di un'ora, di un'estate, di un breve istante in cui si raggiunge probabilmente il momento della fioritura. Per diverse settimane o diversi mesi, raramente di più, una ragazza molto bella non vive la sua esistenza consueta. È come ebbra. Le viene accordata la sensazione di essere fuori del tempo, fuori dalle sue leggi, di non dover sottostare alla monotona successione dei giorni, ma di gustare solamente momenti di felicità cocente e quasi disperata."

Buongiorno a tutti!
Con l'inizio dell'università, il mio blocco del lettore - che durava da qualcosa come 3 mesi - finalmente è stato sconfitto. Nel giro di una settimana ho letto libri, manga, graphic novel e recuperato diversi film. Insomma, mi sento stimolata come non mai e le letture in cui mi imbarco sembrano essere particolarmente fortunate. Compreso questo mio ritorno, a un anno di distanza, a Irene Nemirovsky, autrice nota soprattutto per il suo Suite francese. Io ne ho acquistato il volume Newton Compton che racchiude tutta la sua opera e avevo esordito con il suo primissimo romanzo, Il malinteso, che pur non essendomi dispiaciuto non mi aveva neanche colpita. Era però da tempo che meditavo di darle un'altra possibilità e dopo le entusiaste parole che una mia amica ha speso su Jezabel ho deciso che era giunto il momento.
Ecco, a libro concluso posso definirmi decisamente colpita.
Jezabel è una regina dell'Antico Testamento. Assetata di potere, sacrilega, lussuriosa. A questa figura di donna viene associata Gladys, la protagonista del romanzo che, da quanto ho capito, dovrebbe essere il più feroce e impietoso atto d'accusa della Nemirovsky contro la madre, figura non amata e con la quale era in forte contrasto. In effetti, in questo romanzo la contrapposizione donna/madre è fortissima e l'autrice colpisce con ferocia l'ideologia comune che vede la donna come madre per natura e vocazione. 
Gladys ha un dono e una maledizione: è bellissima. Fin da giovanissima, conosce e assapora uno degli unici poteri concessi a una donna: quello di dominare gli uomini in nome dell'amore e del desiderio. L'amore è un gioco per la splendida Gladys, l'unico gioco che possa attenuare la noia di una classe sociale troppo ricca per occupare il tempo in altra maniera che non sia giocare coi sentimenti altrui. Uomo/donna, donna/donna. I rapporti interpersonali sono scontri all'ultimo sangue mascherati con nomignoli teneri e finta cortesia. Rappresentante di tutta una generazione, quella Belle Epoque che non resiste all'impatto con la guerra, Gladys conduce una vita di raffinatezza e giochi di potere. Finchè non comincia ad invecchiare.

"Che terribile regalo la felicità, una felicità troppo completa, troppo insolente e che finisce, come tutte le cose devono finire...
(...)
In fin dei conti, non c'è che una realtà, che una felicità al mondo, ed è l'essere giovani."

Che accade a una donna che non ha altra gioia al mondo che essere bella e amata nel momento in cui la giovinezza inizia a svanire? La consapevolezza degli anni che passano diventa un'ossessione per Gladys, un segreto da nascondere con ogni mezzo, un altare cui sacrificare qualunque cosa, compresa la figlia, la giovane Marie-Therese, che lei ama ma che ben presto la scalzerà. Non sarà più la bellissima Gladys ma sarà Gladys che ha una figlia in età da marito, la suocera, la nonna... Il pensiero le è insopportabile e l'unico modo che ha per fermare - anche se solo in maniera illusoria - il tempo è rubare, succhiare via come un vampiro, la giovinezza alla figlia. Bloccata in uno stato di eterna bambina, Marie-Therese si ritrova ad interpretare il ruolo della madre per una donna troppo egoisticamente amante di sè stessa per concedere lo spazio di vivere alla figlia. E così sembra che la felicità di Marie-Therese debba sempre cedere il passo a quella di Gladys, che ciecamente ricatta, si arrabbia, prega e, in ultimo, impone alla figlia le sue scelte, la sua volontà, la sua invidia.
In questo libro non c'è spazio per un sano rapporto madre/figlia. Anche in questo caso, le relazioni e gli affetti sono maschere per scontri all'ultimo sangue, dove ognuno per un brandello in più di felicità - o quanto è ritenuto essere felicità - è pronto a sacrificare chiunque. In ultima analisi, diventa lo storico scontro vecchi/giovani.

" << Zitta!... Ci sono parole che non ha il diritto di pronunciare!... Sono mostruose in bocca a lei... contro natura. Lei ha sessant'anni, è vecchia... L'amore, gli amanti, la felicità, non fanno per lei!... Accontentatevi, voi vecchi, di tutto ciò che non possiamo togliervi >>, disse X con rabbia, pensando alla madre di Laure. << Tenetevi il denaro, tenetevi i posti, tenetevi gli onori, ma questo, questo almeno rimaneva a noi! Era la nostra ricchezza, la nostra quota personale!... Con che diritto ve lo prendete? (...) >>"

Ogni nuova generazione lotta per strappare i successi a quella che l'ha preceduta. È la natura, anche se a volte cerchiamo di ricoprirla con una patina di civiltà. Cosa succede, però, quando il vecchio si rifiuta di cedere il passo al nuovo? Quando non si rassegna a passare a una nuova fase della vita, lasciando gli ardori e le passioni ai nuovi arrivati?
Gladys lotta con disperazione contro la vecchiaia, che non è solo un corpo cadente ma anche uno spirito aggrappato a un'altra epoca. Con quanta amarezza, infatti, Gladys si scontra con una nuova realtà, con un nuovo modo di amare. Cambiano gli uomini e le donne e lei non è capace di stare al passo col cambiamento ma comunque si ostina a fingere di essere ciò che non è.
Gladys è un personaggio mostruoso. Nel suo egoismo, nella sua superficialità, nella sua menzogna. Allo stesso tempo, è insopportabilmente reale. Ciò che più colpisce, in lei, è il suo cieco egoismo, che non risparmia nessuno, nemmeno la figlia. Di nuovo, durissima la critica alla figura di donna naturalmente associata a quella della madre da parte della Nemirovsky. Nonostante le apparenze, poi, non è neanche una donna emancipata, perchè ogni cosa che fa, ogni minuto della sua esistenza è vissuto in relazione agli uomini. Come dice lei stessa, l'intelligenza e la cultura non sono che orpelli per rendere più significativo un bel corpo, ma una volta andato via l'uomo, a che servono davvero?
Gladys ha vissuto tutta la vita nel culto narcisistico di sè stessa. Un culto che aveva bisogno di adoratori per reggere e che il tempo, progressivamente, distorce e rende ossessione e malattia.
Questo romanzo, scritto con lo stile raffinato della Nemirovsky, si è rivelato incredibilmente cupo e crudele, nel suo dipingere senza pietà nè sconti una donna, bellissima fuori ma marcia dentro, vuota. La lettura è un morboso viaggio nella psiche sempre più instabile e disturbata di questa moderna Jezabel, un personaggio che si attira poca simpatia e solo un po' di pietà nel suo graduale abbruttimento - più spirituale che fisico. Un libro che non mi aspettavo e che mi ha messo molta voglia di tornare a leggere la Nemirovsky.

Virginia



venerdì 29 settembre 2017

Recensione: Un incantevole aprile di Elizabeth von Arnim

Titolo: Un incantevole aprile
Autore: Elizabeth von Arnim
Traduttore: Luisa Balacco
Casa editrice: Bollati Boringhieri
Numero di pagine: 234
Formato: Cartaceo


Un discreto annuncio pubblicitario: «Per gli amanti del glicine e del sole...» apparso sul «Times» è il preludio a un mese rivelatore per quattro donne dalla personalità assai diversa. A picco su una baia della Riviera, tra giardini di calle, violacciocche e acacie, si staglia il castello medievale di San Salvatore. Alla ricerca disperata di sollievo dalle preoccupazioni quotidiane, Mrs Wilkins, Mrs Arbuthnot, Mrs Fisher e Lady Caroline Dester si lasciano allettare da quel paradiso terrestre. Cullate dalla primavera mediterranea, dai monti ammantati di violette e fiori dal dolce profumo, queste donne abbandonano a poco a poco i formalismi di società e scoprono un’armonia da tutte anelata e tuttavia mai conosciuta. Pubblicato nel 1922, e simile per vari aspetti a Il giardino di Elizabeth, questo romanzo è imbevuto di quella capacità descrittiva e di spensierata irriverenza che costituiscono il tratto tipico della scrittura di Elizabeth von Arnim.

Buon venerdì a tutti! Finalmente la settimana è finita ed è arrivato il weekend. Oggi vi parlo di un libro che ha prolungato per qualche giorno l'estate e la sensazione di vacanza dentro di me, facendomi inoltre conoscere una nuova autrice, che da tempo mi incuriosiva: Elizabeth von Arnim.




Questa autrice per molti anni sconosciuta, sta venendo ora riscoperta. Grazie all'interessantissimo blog Libri nella brughiera io già la conoscevo, ma solo un paio di mesi fa in libreria ho deciso di buttarmi e di acquistare uno dei suoi romanzi. Un incantevole aprile non è il suo titolo più noto, anzi. Leggiucchiando in giro, avevo visto dei pareri tiepidi su quest'ultimo lavoro della von Arnim (*mi correggo, è invece una sua opera molto nota ma l'ho scoperto solo in seguito alla recensione!), ma era l'unico suo libro sullo scaffale, quel giorno, e io sentivo che era quello il momento per comprare un suo lavoro, dopo anni di tiepida decisione. Preparata a un libro probabilmente non eclatante, qualche giorno fa mi sono accinta a leggerlo e mi sono trovata davanti una grandissima sorpresa.
L'aggettivo che, fin dalle primissime pagine, ho accostato a questo romanzo è "incantevole". E continua ad essere l'aggettivo più adatto. Ogni cosa, dall'ambientazione alle atmosfere di questa storia ha un'aura di magia, di fiaba senza tempo. Nel momento in cui i personaggi varcano la soglia di San Salvatore e giungono in un'Italia nel pieno della fioritura, qualcosa dentro di loro inizia a cambiare. Ma se Lotty - Mrs Wilkins - sembra assorbire fin da subito questa gioia intima e assoluta e si trasforma senza fatica, lo stesso non può dirsi per le altre tre donne, che lotteranno contro questa sensazione straniante.
Il libro della von Arnim è stato per me un'esperienza assolutamente nuova. La primissima cosa che mi ha colpita è la profonda comunione che si instaura fra i personaggi e il loro stato d'animo e la natura rigogliosa della Liguria. La scrittrice indulge spesso e volentieri in meravigliose descrizioni paesaggistiche, che non sono mai fini a sè stesse ma funzionali a una trama che è costruita sulla corrispondenza fra la bellezza e l'armonia della natura e l'anima umana.

"Lo splendore dell'aprile italiano era ai suoi piedi. Il sole la inondava di luce e il mare giaceva addormentato, muovendosi debolmente. Al di là della baia, anche le incantevoli montagne, dai colori squisitamente variegati, erano addormentate nella luce; e sotto la sua finestra, in fondo al pendio erboso costellato di fiori dal quale si ergevano le mura del castello, un grande cipresso si stagliava come un'enorme spada nera contro le tenui sfumature azzurre, violette e rosa delle montagne e del mare.
(...)
Era la felicità? Com'era povera e mediocre la vita di tutti i giorni. Ma cosa dire, come descriverla? Non stava più nella pelle, era come se fosse troppo piccola per contenere tutta quella felicità, come trovarsi in un bagno di luce. Era sorprendente provare questa beatitudine totale, perchè qui lei si trovava, e non faceva nè avrebbe fatto una sola cosa per gli altri, non doveva fare nulla che non avrebbe desiderato. A sentire le persone che era solita frequentare, avrebbe dovuto perlomeno avere dei dolori.
E invece neanche uno. C'era qualcosa di strano. Era incredibile che a casa fosse sempre così buona, così tremendamente buona, e ne avesse soltanto sofferenze; là si dedicava interamente agli altri ed era vittima di malesseri di ogni sorta: fitte, dolori e momenti di sconforto. E ora che si era spogliata di tutta la sua bontà e l'aveva lasciata alle spalle come un mucchio di vestiti inzuppati di pioggia, non provava che gioia. Denudata della bontà, godeva nel ritrovarsi nuda. Era svestita e raggiante."

Gli inserti descrittivi non sono mai troppo lunghi o prolissi. Al contrario, sono brevi ma incredibilmente suggestivi, incastonati con naturalezza nella narrazione. Una narrazione che ha i pregi di essere leggera e profonda a un tempo. Lo stile della von Arnim è aggraziato, ironico in vari momenti di comicità, eppure lascia nel lettore una sensazione di luce e di calore, come se la magia di San Salvatore si fosse insinuata nello stesso lettore, filtrata dalle pagine del libro. Mi sono ritrovata dunque inevitabilmente coinvolta e partecipe delle emozioni delle quattro protagoniste, che abbandonano il grigiore delle loro vite e riescono a vederle in una nuova ottica proprio a San Salvatore, immerse nella bellezza più assoluta e primitiva - quella della natura nel suo pieno fulgore - e nel silenzio. E così ognuna di loro medita, nella solitudine e nel sole, e si libera di quello strato di spessa menzogna che le avvolge. Ogni finzione cade e, come Lotty, si ritrovano nude davanti a sè stesse. Che cos'è il matrimonio di Rose se non un fallimento, e per colpa sua? Nella solitudine, quando non può annegare l'infelicità nel lavoro e nella religione, può infine capire che, oltre a tutte le incomprensioni e l'amarezza, l'unica cosa che vuole davvero è amare. Di tutti gli esseri presenti sulla Terra, dice lei, non gliene serve che uno. Uno da amare, coccolare, qualcuno con cui condividere anche la gioia, perchè essa è dimezzata nel momento in cui non c'è nessuno con cui condividerla.
L'anziana Mrs Fisher, che si trincera dietro a un passato di glorie ormai defunte, inizia a sentirsi di nuovo viva, nonostante tutta la resistenza opposta. Come una pianta, avverte nuove foglie germogliare dal suo tronco stanco.
Perfino lady Caroline cambia. Lontana dall'opprimente e fasulla società londinese, dagli uomini che cadono sempre ai suoi piedi e che non la lasciano mai in pace, può finalmente guardare dentro sè stessa, guardarsi indietro e con scoprire con amarezza e sgomento quanto vuota e squallida sia stata la sua vita fino a quel momento.

"Si strinse lo scialle intorno come per difendersi, per isolarsi. Non voleva diventare sentimentale, ma qui era difficile non esserlo; la notte meravigliosa si insinuava in ognuno portando con sè, che lo si volesse o no, sentimenti forti, sentimenti che non si potevano controllare, pensieri profondi sulla morte, il tempo, lo spreco; pensieri meravigliosi e devastanti, magnifici e tetri, insieme estasi e tormento, e un desiderio senza fine che spezzava il cuore. Si sentì piccola e incredibilmente sola. Si sentì nuda e indifesa. Istintivamente si strinse più stretta nello scialle. Con questa cosa di chiffon  cercava di proteggersi dall'eternità."

Il più grande pregio di questo libro è quello di unire una lettura più seria e profonda a una scrittura lieve e aggraziata, che permette di non annoiarsi mai.
Nonostante le mie basse aspettative, mi sono trovata davanti un romanzo meraviglioso e insolito, che mi ha colpita moltissimo e mi ha portata a impadronirmi subito di un altro libro di questa autrice, che sento già diverrà una delle mie preferite e che non vedo l'ora di approfondire.
Conoscete Elizabeth von Arnim? Avete mai letto uno dei suoi libri? Per parte mia, la annovero sicuramente come una grande scrittrice del Novecento e in rispetto di ciò la inserisco nel canone mio personale dei classici.

Virginia


venerdì 22 settembre 2017

Recensione: Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson

Titolo: Io non mi chiamo Miriam
Autore: Majgull Axelsson
Traduttore: Laura Cangemi
Casa editrice: Iperborea
Numero di pagine: 539
Formato: Cartaceo

"Io non mi chiamo Miriam", dice di colpo un'elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant'anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l'Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d'Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l'"altro" interrogandosi sull'identità - etnica, culturale, ma soprattutto personale - e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all'erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno.



Buon venerdì lettori:) Oggi finalmente ritorno con la recensione di un libro! Eh si, il mio ritmo di lettura in questi mesi è calato, complici anche i tanti nuovi interessi che sono nati in questo periodo, ma io tengo duro, anche solo per trovare piccoli gioielli come il romanzo che vi recensisco oggi.
Iperborea è sicuramente una casa editrice cui prestare attenzione. Qui in Italia le librerie pullulano di gialli nordici (in particolare svedesi) ed è facile dimenticarsi che i Paesi nordici hanno una loro letteratura e che spesso è di tutto rispetto. Come vi ho già detto anche ai tempi di Bjorn Larsson (qui la mia recensione), queste edizioni sono di assoluto pregio. Il formato è assolutamente innovativo - e intrigante, a mio parere - e troviamo un breve saggio a fine libro che ci permette di inquadrare meglio quanto letto.
Io non mi chiamo Miriam affronta coraggiosamente un tema cui siamo ormai avvezzi: la Seconda Guerra Mondiale e i campi di sterminio. Lo fa, però, in maniera diversa. Protagonista è l'anziana Miriam che, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, non riesce più a nascondere dentro di sè i ricordi legati agli anni imprigionata ad Auschwitz prima e a Ravensbruck poi. Soprattutto, non riesce più a negare, anche solo a sè stessa, una verità sepolta dentro di lei da fin troppo tempo: il suo nome non è Miriam.
Il libro non è che lo svelamento, nell'intrecciarsi fra presente e passato, della verità su Miriam - o meglio, Malika. Una verità taciuta dalla protagonista per più di cinquant'anni. Ma come spiegare ai propri cari e amici di aver finto fin dall'inizio di essere un'ebrea quando invece è una zingara?
Il romanzo affronta varie tematiche.
Quella più evidente è quella della vita nei campi di concentramento, raccontati qui con assoluta crudezza. La disperazione che prima imbruttisce e poi uccide - anche solo moralmente - i prigionieri (Se questo è un uomo, ci chiede infatti Primo Levi); la bassezza infinita e la mancanza di umanità dei carcerieri, la cattiveria dei detenuti verso altri nella stessa situazioni. Sopravvivere vuol dire sacrificare l'altro al proprio posto e uno dei pochi modi per mantenere un barlume di umanità è proprio quello di svincolare da questo ragionamento, una cosa che la giovanissima e stremata Miriam imparerà da Else, che ci mostra come l'amore possa trovarci ovunque.
Uno dei temi cardine del romanzo è, ovviamente, quello dell'identità. Nel caso di Miriam/Malika, l'identità personale si fonde con quella culturale. Quando da Malika diventa Miriam lo fa solo per contingenza, ma il momento in cui decide di continuare con questa menzogna o addirittura di rinnegare le sue radici, è come se voltasse le spalle a tutti gli altri zingari. Un senso di colpa che la tormenta perfino a 85 anni; una debolezza che non è mai riuscita a perdonarsi. Ma a parte le questioni etniche, chi è Miriam? Malika è la ragazzina ormai perduta fin troppi anni fa, è una parte di lei ma non è più lei; Miriam è la nuova identità che ha trafugato e che ha indossato per quasi tutta la sua vita, eppure non le appartiene completamente. La sua stessa vita sembra spaccata in due: il campo di concentramento prima e la Svezia poi. Come far collimare il fantasma incattivito che a stento si reggeva in piedi in Germania con la perfetta casalinga svedese, la cui vita fatta di pellicce e borsette sembra perfetta? Ma la realtà - quella vera e oscura - è appena dietro l'angolo, negli incubi che la perseguitano la notte e per quel fondo di odio - verso tutto e tutti - che talvolta riemerge. Ma va ricacciato in fondo, sempre più in fondo, perchè in questa nuova vita luminosa non c'è posto per le ombre di un passato che nessuno sembra davvero interessato a ricordare - Dimentica e sopravvivi, si ripete instancabilmente la stessa Miriam, seguendo la lezione di un padre ormai sepolto negli abissi della memoria. Dimenticare diventa essenziale. Ma ciò che è avvenuto è troppo terribile per poter essere cancellato, e a 85 anni Miriam non riesce più a stare zitta. Di fondo, però, rimane la domanda: chi è davvero lei?
La feroce determinazione con cui Miriam cerca di cancellare Malika e il suo passato è dolorosa. Miriam, ebrea di buona famiglia, diventa il suo migliore travestimento. Chi, infatti, vorrebbe mai aiutare una rom? Nel corso della sua permanenza nei campi e perfino in Svezia, innumerevoli volte ha visto cosa succederebbe se la verità venisse fuori: disprezzo, sfiducia, miseria. Per sopravvivere, Malika dimentica perfino sè stessa e diventa Miriam.
Uno dei pezzi più pesanti da leggere (io piangevo e non mi capita quasi mai - ma i bambini mi fanno questo effetto) è la storia di Didi, il fratellino di Malika, il bambino che ha cresciuto al posto della madre, morta da anni. La sua morte crudele è uno spettro che aleggia per tutto il romanzo ma solo verso la fine del suo racconto Miriam troverà la forza di aprire anche quella porta, l'ultima e la più estrema, il dolore più profondo che non è mai riuscita a cancellare davvero. In questo caso, l'autrice coinvolge il dottor Mengele, tristemente noto per gli esperimenti che conduceva sui prigionieri dei campi di concentramento.
Quello che mi è veramente piaciuto di questo romanzo è che affronta un'altra importante tematica, che forse spesso finisce per essere dimenticata: cosa accadde ai sopravvissuti? Una volta liberati, cos'è accaduto a questi spettri? Com'è possibile tornare umani dopo tutto l'orrore?
Non si ritorna mai del tutto, ecco come. Si lotta per seppellire ogni cosa, perchè com'è possibile vivere dopo aver visto quali picchi di crudeltà e bassezza può raggiungere l'uomo? Miriam cancella sè stessa, rinnega il suo passato, la sua lingua e il suo popolo. Di più, cerca la sicurezza data dall'invisibilità e dall'omologazione. Non vuole spiccare o essere diversa, ma solo nascondersi. E per farlo è pronta a tutto, perfino ad adattarsi alla volontà di benefattori che troppo spesso sembrano dimenticarsi di lei e finiscono per vederla come un'opera di bene, un monumento a sè stessi. Così ho visto Hanna e Olof. Nonostante il loro indiscutibile buon cuore, quello che vogliono è che Miriam rientri perfettamente nei loro parametri, senza sbavature. Miriam se ne rende subito conto ed è ben felice di accontentarli. E alla fine del romanzo non riusciamo a capire quanta effettiva felicità ci sia stata nella vita di Miriam, quella apparentemente perfetta condotta in Svezia.
Questo libro mi è piaciuto parecchio ma ha, a mio parere, qualche sbavatura. Ciò che mi è piaciuta di meno è la cornice, ovvero la Miriam di 85 anni che rivela a sua nipote Camilla la sua vera storia. Non mi è piaciuta questa Miriam, così come non ho amato la sua famiglia assolutamente disfunzionale - e non in senso simpatico. L'autrice mette parecchia carne al fuoco, troppa se si tiene conto del fatto che queste tematiche non verranno mai approfondite ma lasciate là, semplice orpello per una narrazione che si concentra su ben altro. Così come non ho apprezzato, sono sincera, ilo tentativo di sconvolgere il lettore con qualche artificio narrativo. Il materiale è già pesante di suo senza scadere nel teatrale, secondo me - ma questo è un atteggiamento che ho riscontrato in pochi pezzi.
Quindi, per concludere, un libro che mi è piaciuto molto e che mi ha addirittura fatta piangere. Ve lo consiglio assolutamente, ma solo se non temete le storie dure e, purtroppo, fin troppo vere.
Per parte mia non vedo l'ora di leggere un altro titolo Iperborea, una CE che ha davvero un catalogo valido e degno d'attenzione!

Virginia

giovedì 14 settembre 2017

Oggi parliamo di... MANGA#1: Questo non è il mio corpo di Moyoco Anno

Titolo: Questo non è il mio corpo
Autore: Moyoco Anno
Casa editrice: Kappa Edizioni
Serie? No, autoconclusivo

Noko Hanazawa è una giovane "office lady" con un'ossessione per il cibo. Di fronte a qualsiasi problema, dalle angherie dei superiori alle offese dei ragazzi, Noko reagisce mangiando compulsivamente, fino a dimenticare ogni cosa. Per Saito, il suo ragazzo, il fatto che Noko sia sovrappeso non sembra un problema. Un giorno però, Noko scopre che Saito ha una relazione con una collega di ufficio, e decide di dimagrire per riconquistarlo, ma le cose sono molto diverse da come sembrano. Una storia d'amore densa, insinuante e a tratti sgradevole nello sua crudezza, ma venata d'ironia. Il racconto della lotta quotidiana tra il bisogno psicologico di nutrimento e il desiderio di essere magri fino a scomparire.

Buongiorno a tutti! Oggi torno sul blog con una novità. Dopo anni in cui non mi sono mai approcciata al genere, finalmente ho letto un manga.
Per prima cosa, qualche precisazione. 
Non ho mai letto manga non per pregiudizio ma per questioni di tempo e di soldi. Di tempo perchè ero fin troppo assorbita dai libri e dalla vita quotidiana per farci entrare pure i manga; di soldi perchè ogni centesimo era sacrificato in tributo all'altare della lettura e pensare di spendere anche solo 5 euro (perchè in genere sono questi i prezzi) per un'opera che avrei letto in 30 minuti al massimo mi disturbava.
Ma tant'è. Ora che la mia giornata è DECISAMENTE più piena (drama e serie tv*-*), ho cominciato a sentire il bisogno di espandere i miei orizzonti artistici. E fu così che mia sorella, dopo mesi a sentirmi blaterare, ha deciso di tagliare la testa al toro e di regalarmelo lei un manga per il mio compleanno. Tenete conto che lei è inesperta quanto me in questo campo, quindi il manga che mi ha poi preso è stato scelto sostanzialmente a naso, ispirata da recensioni e trama. E, ovviamente, seguendo l'unico dogma: doveva essere autoconclusivo.
Mi sono dunque trovata questo fumetto tra le mani e il giorno dopo l'ho letto.
Eccovi dunque la mia recensione, in quella che spero sarà una nuova rubrica - magari non attivissima ma nemmeno dimenticata come altre (VERGOGNA) - sul blog.


Questo che potete vedere è il tratto. Io non sono esperta, ma credo che si distanzi discretamente dallo stile canonico degli shoujo (*manga di genere romantico e indirizzati a un pubblico essenzialmente femminile). Se dovessi inquadrare questo manga in un genere letterario (non lo ripeterò mai abbastanza, sono ignorante in questo campo!), sarebbe la letteratura moderna. 
Quando ho iniziato a leggere, credevo che il tema trattato sarebbe stato quello dell'anoressia. Leggendo, però, mi ci è voluto poco per capire che la storia che mi si stava delineando davanti agli occhi era molto più torbida e contorta di quanto avessi immaginato.
La protagonista, Noko, mangia. Quando sta male, quando l'angoscia, la solitudine e il disprezzo di sè la travolgono, mangia. Mangiando è come se ricacciasse sempre più in fondo al suo stomaco tutte le emozioni negative; come se potesse morderle, triturarle, fagocitarle. Farle sparire. Il grasso che le ricopre il corpo è una barriera. Come dice lei stessa, è come se ne fosse intrappolata; allo stesso tempo, è come se la proteggesse da tutto ciò che non va nella sua vita. Ed è tanto. A partire dal lavoro. Noko lavora in un ufficio e, a causa del suo aspetto non convenzionale e "sgradevole", è il capro espiatorio del capo e di tutti i suoi colleghi; il fidanzato storico - sono assieme da 8 anni - la maltratta e la fa sentire sempre inadeguata, intrappolandola in un ricatto emotivo che sembra senza via di uscita: il disprezzo contro la solitudine. Perchè Noko non ha neanche amici. O meglio, gli unici contatti che ha sono le colleghe di lavoro: magre, belle, raffinate. Per loro Noko è più uno svago, un animaletto: talvolta da accettare, più spesso da deridere. E Noko subisce tutto. L'unica vera spia di malessere è il suo compulsivo attaccamento al cibo, che le porta il disprezzo e il disgusto dei suoi conoscenti.
In questo manga, il tema dell'anoressia non è quello centrale, nonostante le premesse. Il vero significato di questa storia - e forse di tutte le storie che ci parlano del disprezzo verso sè stessi - è riassunto nel titolo: Questo non è il mio corpo. Perchè il corpo di Noko non le appartiene. Che sia grassa o magra, ogni volta obbedisce ai dettami di qualcun'altro: del fidanzato, che la vuole grassa per sentirsi su un piano superiore a lei e cibarsi della sua insicurezza, o dei colleghi, che la vogliono magra per questioni estetiche. Della società tutta, più in generale, che impone un modello, spesso irraggiungibile. Il nostro corpo non ci appartiene perchè lo viviamo sempre in relazione a qualcun'altro.
Un altro tema si va però a intrecciare a questo: quello dell'identità, in primis, e infine della felicità. Noko è un personaggio con cui è difficile empatizzare: è una vittima nata. Non riesce a reagire ai soprusi e, anche davanti alle crudeltà più immotivate, invece di alzare la testa e reagire si piega, si fa piccola. Somatizza il male che ha dentro, lo trasforma in grasso. Nel momento in cui tutta la sua esistenza - per quanto misera - sembra crollarle addosso, riesce finalmente a prendere una decisione: dimagrire, a qualunque costo. Perchè la sua idea di felicità è inevitabilmente connessa a un corpo magro. Perdendo peso Noko non cerca la bellezza: cerca l'accettazione. Nel momento, però, in cui perderà peso, capirà che nulla è cambiato: il fidanzato la tratta peggio di prima, sul lavoro la situazione non è migliorata di una virgola. La felicità che cercava è lontana come lo era prima, perchè finalmente capisce che non è mai dipesa da un numero su una bilancia. Il peso - e l'anoressia dopo - non è che il sintomo di un malessere molto più radicato e profondo. Ma il rendersene conto - e comunque ci vorrà buona parte del manga - non è la conclusione felice della vicenda, perchè è come se Noko continuasse a vivere nell'inadeguatezza e nell'insicurezza. Prima aveva un obiettivo, una risposta. Adesso perfino questa sicurezza è crollata e non le rimane altro - di nuovo - che il cibo, che in un modo o nell'altro continua ad essere lo sfogo del suo male: prima quando abbondava e dopo quando se ne privava. In ogni caso, in tutto il manga è come se Noko si dibattesse alla ricerca di un'identità, di qualcosa in cui definirsi che non sia un'etichetta esterna ("grassa" o "magra"). Se, infine, ci sia riuscita o meno lo lascio scoprire a voi.
La vicenda di Noko si arricchisce con pochi ma determinanti comprimari. Su due in particolare vorrei concentrarmi: il fidanzato, Saito, e una collega, Mayumi.
Saito, come ho già scritto, è il fidanzato storico di Noko. La loro è una relazione malata e morbosa, che vede Saito usare Noko come sfogo delle sue frustrazione. Figlio unico e orfano di padre, Saito vive ancora con la madre: una donna che lo avvilisce continuamente, che lui quasi odia, ma con la quale ha instaurato a sua volta una relazione morbosa. Noko diventa per lui essenziale per ristabilire un senso di superiorità per un uomo che si sente un fallito. Nonostante sia un bell'uomo e la sua attenzione si concentri sulle belle ragazze, gli unici legami che riesce a stringere sono con donne con le quali si sente al sicuro, che può essere lui a rifiutare e a far sentire delle nullità. Noko è la donna perfetta, in quest'ottica. Accecata dalla sua bellezza, dall'incredulità di aver ottenuto l'attenzione di un uomo del genere, accetta i maltrattamenti e le umiliazioni, pronta a tutto pur di non essere lasciata sola. L'effettiva fragilità di Saito esplode nel momento in cui Noko inizia a dimagrire. Questa sua presa di posizione così forte lo mette in crisi e scatena il suo odio. Sente di non poterla più controllare e quindi Noko esaurisce per lui tutta la sua utilità.


Personaggio del tutto differente è Mayumi, che nel corso della storia veste panni quasi satanici. Lei è una collega di Noko, ma non una qualsiasi: è una capobranco, è la più bella e sicura di sè del gruppo, la più sfrontata e la più cattiva. Il suo segreto è quello di sembrare buona e dolce, ma la sua vera personalità viene fuori nel giro di poche pagine. Mayumi vive del confronto con persone come Noko: si nutre della sua infelicità e insicurezza e se ne rafforza. Di più: come dirà lei, odia le persone brutte. Perseguitare e distruggere Noko diventa così quasi una missione, soprattutto nel momento in cui quest'ultima cerca di riemergere dal limbo in cui è sprofondata. Le angherie di Mayumi diventano sempre più crudeli, fino a un livello che ha quasi dell'incredibile. Ma ciò che colpisce davvero di Mayumi è il ruolo che le viene affidato. Uno dei messaggi più forti e disturbanti del manga è che, in un mondo dominato dall'apparenza, la bellezza è garanzia di opportunità e trattamenti migliori. Ancora di più: direttamente dagli antichi greci, ancora un bell'aspetto diventa sinonimo di una bella personalità. Chi è bello può essere un diavolo ma nessuno ci crederà mai del tutto, nemmeno davanti all'evidenza. Come dirà Mayumi a Noko, è molto più facile attribuire azioni squallide a persone brutte. 
Ciò che più mi ha colpita è che il finale del manga, nonostante per certi aspetti possa sembrare positivo, in realtà non lo è per nulla. Nonostante la vittoria, si avverte un senso di sconfitta, di non concluso. Come sempre nella vita, aggiungo io.
Mentre leggevo, mi è venuta in mente un'autrice e un suo titolo in particolare. Ne parlo perchè i temi e le atmosfere buie e malate mi hanno fatto pensare più volte e con insistenza proprio a lei. Sto parlando di Grotesque di Natsuo Kirino, uno dei libri cardine della mia adolescenza, un malloppone di 800 pagine di puro dolore, quasi disgusto. Se avete letto questo manga e vi è piaciuto; se non leggete manga ma queste tematiche vi interessano; se cercato un libro crudele, io ve lo consiglio caldamente.
Detto questo, ho amato questo manga e ne sono rimasta enormemente colpita. Non mi aspettavo questo genere di storia e come vedete ne sono nate parecchie riflessioni. Adesso vorrei continuare questo mio viaggio in questo altro tipo di narrazione e, in attesa del Lucca Comics&Games, raccoglierò in giro informazioni per decidere con quale altro manga proseguire. Avete consigli da darmi? Siete appassionati di manga? Fatemi sapere nei commenti, che sono molto curiosa al riguardo.
Ci sentiamo la settimana prossima con una CineRecensione!

Virginia

lunedì 11 settembre 2017

Recensione: Il giardino delle delizie di Joyce Carol Oates

Titolo: Il giardino delle delizie
Autore: Joyce CArol Oates
Traduttore: Francesca Crescentini
Casa editrice: Il Saggiatore
Numero di pagine: 520
Formato: Cartaceo

Campi di segale sotto il sole abbacinante dell'Arkansas. Le mani strappano i frutti dalla terra, la terra prude e si mangia le mani. I braccianti arrancano nel meriggio insieme ai cavalli e il sogno americano è un abbaglio nell'afa, una zacchera di fango sulla schiena, un canto di nostalgia e speranza spezzato dalle spighe del grano. Clara è la figlia di due contadini e trascorre l'adolescenza a correre tra gli odori aspri ed erbosi delle piantagioni, e a rubacchiare oggetti insignificanti nei negozi per divertimento e noia. Vagheggia un futuro di emancipazione, ricchezza e amori idilliaci; fantastica di evadere dalla promiscua violenza del suo mondo provinciale gettandosi con abbandono in ogni avventura: prima con Lowry, fascinoso e ribelle apolide che la strappa alla famiglia e l'abbandona subito dopo averla ingravidata; poi con Revere, facoltoso uomo già sposato che Clara seduce in cambio di una promessa di stabilità economica; infine con suo figlio Swan - l'ennesima speranza di riscatto, l'estrema illusione di una riscossa impossibile -, destinato però a diventare un uomo violento e autodistruttivo e a far naufragare anche gli ultimi sogni della madre. Primo capitolo dell'Epopea americana di Joyce Carol Oates, "Il giardino delle delizie" racconta l'America proletaria degli anni Cinquanta e Sessanta, l'America white trash, avida di scalate sociali e rivincite, cianotica per i pugni incassati dai bastardi nelle bettole e dalla vita. Manescamente sordida, fumeggiante e sognatrice. Attraverso gli occhi di una ragazza fragile e bellissima, straziata dai desideri e dai demoni sociali ereditati, Oates tesse una storia di abusi e violenze, un ritratto realistico di quella impetuosa fiumana americana che travolge e annega i suoi figli, attirandoli ai margini dell'esistenza, senza possibilità di ritorno, nel miraggio di un paradiso terrestre, un giardino delle delizie che si rivela, alla fine, una terra desolata.

Come promesso, inauguro la settimana con la recensione della mia ultima lettura. E che lettura! Finalmente ho fatto la conoscenza con una delle penne più famose d'America: la prolifica Joyce Carol Oates. Attirata da questa Epopea americana in 4 volumi che il Saggiatore ha portato in Italia, mi sono buttata su un romanzo che mi aspettavo impegnativo ma che è riuscito a sposare una trama impegnata e dolorosa con uno stile scorrevole.
Durante questa lettura due mi sono parse le maggiori tematiche affrontate nella prospettiva di un'America degli inizi del Novecento: la condizione della donna e le fortissime disparità sociali, temi che a un certo punto si fondono nel personaggio di Clara, filo rosso di tutta la vicenda, protagonista di un libro mai a lei del tutto dichiarato. I nomi che intitolano le tre differenti parti sono infatti quelli dei tre uomini più importanti della sua vita: Carleton, il padre; Lowry, l'amore della sua vita; Swan, il figlio.
Tutto il libro è incentrato su una ricerca di riscatto di Clara. Lei che è "spazzatura bianca": non è nera ma vive nelle stesse condizioni di quelli di colore e così la sua famiglia e quelle degli altri braccianti. Non posseggono neanche un brandello di terra ma vivono di essa. Fin dalla più tenera età lavorano nei campi, vi si spezzano la schiena, vi invecchiano precocemente; la terra è testimone del fiorire delle loro speranze e del loro rapido morire nel giro di pochi anni, quando i sogni per il futuro diventano una massacrante quotidianità. Vive in catapecchie cadenti e sporche questa "feccia bianca". Non sanno quasi leggere, sono imbruttiti e sfiancati dalla vita che conducono e il germe della follia cova sotto alla determinazione prima e alla disperazione poi. E così la madre di Clara, sfiancata dalle innumerevoli gravidanze, perde prima la bellezza, poi la gioia, poi la ragione; e come lei tutte le altre donne. È un'umanità rabbiosamente animalesca quella della Oates. I bambini crescono fin troppo in fretta e diventano adulti quasi analfabeti, non potendo frequentare con continuità la scuola e abbandonati con disprezzo da una società che li percepisce come irrecuperabili.
In questo contesto nasce Clara. Fra le bestemmie, il lavoro che spacca le ossa e l'amarezza di una vita che non è all'altezza delle aspettative. E da questo cerca disperatamente di scappare. Lowry rappresenta la sua via di fuga, il ponte per un'esistenza diversa. Ma anche Lowry è solo l'ennesimo sogno che non può realizzarsi. Revere, invece, è la roccia solida a cui appoggiarsi, è lui che può donarle le chiavi di quel giardino delle delizie che Clara ha sempre invidiato. Un giardino che, ovviamente, si rivela molto meno perfetto di quanto le apparisse da fuori.
Come dicevo, un altro dei temi che mi ha colpito è quello della condizione femminile. In una realtà priva di riscatto, l'unico modo per fuggire, per Clara, è legarsi a un uomo. Prima il padre, poi Lowry, poi Revere. In tutti i casi, i sacrifici richiesti sono durissimi: una silenziosa acquiescenza, un'assoluta mancanza di volontà (soprattutto nel caso di Revere). Come astutamente nota Clara, non sono le donne che strillano e pretendono che alla fine ottengono ciò che vogliono, ma quelle che sono accondiscendenti, che non discutono mai, che non contrariano mai. Una realtà amara che sto ritrovando anche nella mia attuale lettura, di cui vi parlerò sicuramente in futuro.
Piuttosto significativa, in questo senso, è senz'altro la figura dell'anonima moglie di Revere. Una donna che sa dell'amante ma che non può fare nulla. Questo era uno dei destini per noi donne: l'impotenza. La condanna a dover sempre chinare la testa davanti alle decisioni di un uomo, chiunque egli sia. Una constatazione amara, in un'epoca dove ancora le donne che protestano contro i maltrattamenti sono guardate con disprezzo da molti uomini e schernite perfino da altre donne.
Come si può intuire, il libro mi è piaciuto. Primo romanzo di un'epopea ambiziosa che mira a descrivere l'America del Novecento e ad esplorare le diverse condizioni sociali e umane cui essa ha dato luogo.
Libro consigliatissimo. Personalmente non vedo l'ora di leggere i seguiti.
E voi? L'avete letto o conoscete altri lavori della Oates?

Virginia

venerdì 11 agosto 2017

Recensione: Nuvole di fango di Inge Schilperoord

Titolo: Nuvole di fango
Autore: Inge Schilperoord
Traduttore: Stefano Musilli
Casa editrice: Fazi
Numero di pagine: 188
Formato: Cartaceo

D’estate, in cerca di sollievo dal caldo, la tinca si immerge nella melma dei fondali. Quando poi torna a muoversi, inevitabilmente solleva una nuvola di fango. Come Jonathan: giovane dal passato segnato, ha bisogno di nascondersi, cerca di muoversi il meno possibile e, quando lo fa, solleva una nuvola torbida attorno a sé.
Trentenne attratto dalle bambine, Jonathan fa ritorno a casa dopo un periodo trascorso in carcere. La madre è una donna anziana e solitaria e il villaggio di pescatori in cui è cresciuto si sta svuotando. Non c’è quasi più nessuno. Jonathan non ha amici. Una casetta malmessa, il mare a due passi, il cielo sconfinato. Lui, la madre, il caldo estivo soffocante. L’unico barlume di normalità, l’unico attaccamento alla vita vera, è il prendersi cura degli altri: della madre, del cane e di una tinca che ha trovato, ferita, in un laghetto vicino casa. Ma le giornate di Jonathan prendono una piega inaspettata quando Elke, una bambina sempre sola che condivide con lui la passione per gli animali, sembra cercare la sua compagnia… Nuvole di fango è un viaggio vorticoso dentro una mente malata che lotta contro se stessa. Pagine ipnotiche, intrise di umanità, in cui ogni giudizio viene sospeso, costringendoci a vedere il mondo attraverso gli occhi di un criminale che cerca in tutti i modi di non cadere in tentazione. Non di nuovo.
Nel suo sorprendente romanzo d’esordio, accolto dalla critica in maniera entusiastica, la psicologa Inge Schilperoord ha avuto l’audacia di indagare là dove la maggior parte delle persone non osa nemmeno avvicinarsi.


Questo libro è stato un acquisto assolutamente spontaneo e imprevisto. Ricordando vagamente una recensione positiva di un nome fidato, ho letto velocemente la sinossi e deciso che si, sarebbe tornato a casa con me. Non solo, ho anche deciso di leggerlo subito dopo aver terminato la lettura in corso. E così ho fatto, per una volta nella vita. La lettura è durata una giornata appena, complice un sabato privo di impegni e un po' di frescura, per non parlare della curiosità di sapere come l'autrice avrebbe trattato un tema così scottante.
Jonathan è un pedofilo. Dopo aver molestato una bambina, finisce in carcere e lì si impegna con tutte le sue forze a seguire il percorso di recupero attuato per lui dagli psicologi. Questo finchè non viene rilasciato per mancanza di prove e Jonathan, finalmente, è libero.
Questo è un libro estremamente triste. Jonathan è un personaggio triste e claustrofobica è l'atmosfera delineata dalla Schilperoord, fatta di strade vuote e aride, il cemento incandescente in un estate caldissima fin troppo simile alla nostra di quest'anno. Il caldo e il silenzio sono compagni costanti del protagonista, che è attorniato da pochissimi personaggi e tutto preso a districare il doloroso nodo della psiche umana.
Chi è Jonathan? Certo non è il cattivo della narrazione. Ci aspettiamo un mostro, un uomo viscido e disgustoso, e troviamo un trentenne completamente ripiegato su sè stesso, schiacciato dalla consapevolezza di essere sbagliato, da un passato che lo ferisce, da una madre opprimente, tirannica nel suo eterno bisogno. Le dinamiche fra madre e figlio sono morbose, contorte, segnate da pesanti silenzi e parole non dette; la vita di Jonathan è l'eterno ripetersi di uno stesso rachitico giorno.
Uscito di prigione, Jonathan vorrebbe solo cancellare il passato e costruirsi un nuovo presente. Ferreo nel mettere in pratica gli esercizi assegnatigli dallo psicologo, è fermamente convinto che la tenacia lo salverà, che il controllo - di sè stesso e dei suoi pensieri - lo riporterà sulla retta via.
Nonostante il mio istintivo ribrezzo per il ruolo incarnato da Jonathan, nel corso della lettura non ho potuto non sentirmi male per lui. Non c'è cattiveria in quest'uomo - non davvero. Si odia, si avvilisce continuamente; per lui l'attenzione per una bambina è simile a quella per un animale: vuole solo proteggere chi è più piccolo e debole, vuole solo prendersi cura. Come gli dice lo psicologo, però, lui non è capace di provare vera empatia, quindi è fin troppo facile sovrapporre ciò che vuole lui a ciò di cui un altro essere vivente ha davvero bisogno. Questo è ciò che accade anche con la tinca menzionata in quarta di copertina: la alleva, la nutre, se ne prende cura. Ma, chiusa in un piccolissimo acquario e fuori dal suo habitat naturale, non può che morire. Il lento deperimento della tinca sembra coincidere con il graduale venir meno dei tanti buoni propositi di Jonathan, che ben presto si troverà in una situazione pericolosamente simile a quella che lo ha condotto già una volta in prigione.
Ciò che davvero mi ha colpita di Jonathan è la sua solitudine. Da sempre preferisce la compagnia degli animali a quella degli uomini, una specie dal quale si sente fuori, non integrato. Convive con la madre, una presenza disturbante nella sua psiche, associata a inespressi desideri sessuali e a rabbia repressa. Non c'è rapporto nè comunicazione fra i due, non davvero. E pur cercando di essere un buon figlio - Jonathan cucina e si occupa della casa con molta solerzia - è come se fra di loro non potesse esserci mai davvero un contatto, una comprensione: la madre non lo capisce, peggio, lo svilisce. Anche prima del carcere, ha sempre sminuito il suo amore per gli animali e ha sempre rigirato il coltello nella ferita della sua solitudine.
Di Jonathan, inoltre, mi ha colpita il suo disperato tentativo di essere normale. Suddivide le sue giornate e le riempie di impegni, lotta per migliorarsi. Ma lotta da solo, e questo forse è il motivo principale del suo fallimento. Mi è dispiaciuto per lui, ho provato una tristezza profonda: è perso, spezzato, disperatamente alla ricerca di calore.
Non che questo giustifichi ciò che ha fatto. Non che la giustificazione sia il punto di questo libro. Un po' come per quel capolavoro che è A sangue freddo di Truman Capote, qui si va oltre determinati aspetti e si scopre solo la duplice faccia dell'uomo, che da un lato ferisce ma dall'altra è ferito. Questo genere di libri ci insegna che, spesso, i mostri li creiamo noi; ancora oltre, che i mostri non esistono, esistono solo esseri umani, deboli e fragili, fallati. Meritevoli di pietà, dopo la punizione.
Non posso dire che questo libro mi abbia scossa, perchè tutte queste riflessioni - e altre - sono frutto della precedente lettura di Capote. Questo romanzo, però, oltre a suscitare riflessioni simili, ha il dono di una prosa meno giornalistica (che era comunque l'intento dichiarato di Capote), più intima, che ci permette di entrare nella testa del protagonista/criminale e di sondarlo direttamente dall'interno. 
Un libro consigliato, ma sempre tenendo conto della scabrosità del tema.

Virginia