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giovedì 5 ottobre 2017

Recensione: Jezabel di Irene Nemirovsky

Titolo: Jezabel
Autore: Irene Nemirovsky
Traduttore: Alessandra Maestrini
Casa editrice: Newton Compton
Numero di pagine: 147
Formato: Digitale

La bellissima ma non più giovane ereditiera Gladys Eysenach è chiamata in tribunale per rispondere di omicidio: ha ucciso un ragazzo, suo amante. Ma come ha fatto Gladys a ridursi a quel punto? Perché invoca una condanna severa e qual è la verità che vuole assolutamente tenere nascosta, che la consuma, rendendola simile a Jezabel, l’ombra inquieta dell’Athalie di Racine? Il romanzo ricostruisce la sua avventurosa e tragica vicenda, ci accompagna nel suo passato a Londra, New York, Nizza, Parigi, ci fa rivivere la Belle Époque dei ricchi prima che la seconda guerra mondiale spazzi via tutto per sempre.


"Rimane sempre, in fondo al cuore, il rimpianto di un'ora, di un'estate, di un breve istante in cui si raggiunge probabilmente il momento della fioritura. Per diverse settimane o diversi mesi, raramente di più, una ragazza molto bella non vive la sua esistenza consueta. È come ebbra. Le viene accordata la sensazione di essere fuori del tempo, fuori dalle sue leggi, di non dover sottostare alla monotona successione dei giorni, ma di gustare solamente momenti di felicità cocente e quasi disperata."

Buongiorno a tutti!
Con l'inizio dell'università, il mio blocco del lettore - che durava da qualcosa come 3 mesi - finalmente è stato sconfitto. Nel giro di una settimana ho letto libri, manga, graphic novel e recuperato diversi film. Insomma, mi sento stimolata come non mai e le letture in cui mi imbarco sembrano essere particolarmente fortunate. Compreso questo mio ritorno, a un anno di distanza, a Irene Nemirovsky, autrice nota soprattutto per il suo Suite francese. Io ne ho acquistato il volume Newton Compton che racchiude tutta la sua opera e avevo esordito con il suo primissimo romanzo, Il malinteso, che pur non essendomi dispiaciuto non mi aveva neanche colpita. Era però da tempo che meditavo di darle un'altra possibilità e dopo le entusiaste parole che una mia amica ha speso su Jezabel ho deciso che era giunto il momento.
Ecco, a libro concluso posso definirmi decisamente colpita.
Jezabel è una regina dell'Antico Testamento. Assetata di potere, sacrilega, lussuriosa. A questa figura di donna viene associata Gladys, la protagonista del romanzo che, da quanto ho capito, dovrebbe essere il più feroce e impietoso atto d'accusa della Nemirovsky contro la madre, figura non amata e con la quale era in forte contrasto. In effetti, in questo romanzo la contrapposizione donna/madre è fortissima e l'autrice colpisce con ferocia l'ideologia comune che vede la donna come madre per natura e vocazione. 
Gladys ha un dono e una maledizione: è bellissima. Fin da giovanissima, conosce e assapora uno degli unici poteri concessi a una donna: quello di dominare gli uomini in nome dell'amore e del desiderio. L'amore è un gioco per la splendida Gladys, l'unico gioco che possa attenuare la noia di una classe sociale troppo ricca per occupare il tempo in altra maniera che non sia giocare coi sentimenti altrui. Uomo/donna, donna/donna. I rapporti interpersonali sono scontri all'ultimo sangue mascherati con nomignoli teneri e finta cortesia. Rappresentante di tutta una generazione, quella Belle Epoque che non resiste all'impatto con la guerra, Gladys conduce una vita di raffinatezza e giochi di potere. Finchè non comincia ad invecchiare.

"Che terribile regalo la felicità, una felicità troppo completa, troppo insolente e che finisce, come tutte le cose devono finire...
(...)
In fin dei conti, non c'è che una realtà, che una felicità al mondo, ed è l'essere giovani."

Che accade a una donna che non ha altra gioia al mondo che essere bella e amata nel momento in cui la giovinezza inizia a svanire? La consapevolezza degli anni che passano diventa un'ossessione per Gladys, un segreto da nascondere con ogni mezzo, un altare cui sacrificare qualunque cosa, compresa la figlia, la giovane Marie-Therese, che lei ama ma che ben presto la scalzerà. Non sarà più la bellissima Gladys ma sarà Gladys che ha una figlia in età da marito, la suocera, la nonna... Il pensiero le è insopportabile e l'unico modo che ha per fermare - anche se solo in maniera illusoria - il tempo è rubare, succhiare via come un vampiro, la giovinezza alla figlia. Bloccata in uno stato di eterna bambina, Marie-Therese si ritrova ad interpretare il ruolo della madre per una donna troppo egoisticamente amante di sè stessa per concedere lo spazio di vivere alla figlia. E così sembra che la felicità di Marie-Therese debba sempre cedere il passo a quella di Gladys, che ciecamente ricatta, si arrabbia, prega e, in ultimo, impone alla figlia le sue scelte, la sua volontà, la sua invidia.
In questo libro non c'è spazio per un sano rapporto madre/figlia. Anche in questo caso, le relazioni e gli affetti sono maschere per scontri all'ultimo sangue, dove ognuno per un brandello in più di felicità - o quanto è ritenuto essere felicità - è pronto a sacrificare chiunque. In ultima analisi, diventa lo storico scontro vecchi/giovani.

" << Zitta!... Ci sono parole che non ha il diritto di pronunciare!... Sono mostruose in bocca a lei... contro natura. Lei ha sessant'anni, è vecchia... L'amore, gli amanti, la felicità, non fanno per lei!... Accontentatevi, voi vecchi, di tutto ciò che non possiamo togliervi >>, disse X con rabbia, pensando alla madre di Laure. << Tenetevi il denaro, tenetevi i posti, tenetevi gli onori, ma questo, questo almeno rimaneva a noi! Era la nostra ricchezza, la nostra quota personale!... Con che diritto ve lo prendete? (...) >>"

Ogni nuova generazione lotta per strappare i successi a quella che l'ha preceduta. È la natura, anche se a volte cerchiamo di ricoprirla con una patina di civiltà. Cosa succede, però, quando il vecchio si rifiuta di cedere il passo al nuovo? Quando non si rassegna a passare a una nuova fase della vita, lasciando gli ardori e le passioni ai nuovi arrivati?
Gladys lotta con disperazione contro la vecchiaia, che non è solo un corpo cadente ma anche uno spirito aggrappato a un'altra epoca. Con quanta amarezza, infatti, Gladys si scontra con una nuova realtà, con un nuovo modo di amare. Cambiano gli uomini e le donne e lei non è capace di stare al passo col cambiamento ma comunque si ostina a fingere di essere ciò che non è.
Gladys è un personaggio mostruoso. Nel suo egoismo, nella sua superficialità, nella sua menzogna. Allo stesso tempo, è insopportabilmente reale. Ciò che più colpisce, in lei, è il suo cieco egoismo, che non risparmia nessuno, nemmeno la figlia. Di nuovo, durissima la critica alla figura di donna naturalmente associata a quella della madre da parte della Nemirovsky. Nonostante le apparenze, poi, non è neanche una donna emancipata, perchè ogni cosa che fa, ogni minuto della sua esistenza è vissuto in relazione agli uomini. Come dice lei stessa, l'intelligenza e la cultura non sono che orpelli per rendere più significativo un bel corpo, ma una volta andato via l'uomo, a che servono davvero?
Gladys ha vissuto tutta la vita nel culto narcisistico di sè stessa. Un culto che aveva bisogno di adoratori per reggere e che il tempo, progressivamente, distorce e rende ossessione e malattia.
Questo romanzo, scritto con lo stile raffinato della Nemirovsky, si è rivelato incredibilmente cupo e crudele, nel suo dipingere senza pietà nè sconti una donna, bellissima fuori ma marcia dentro, vuota. La lettura è un morboso viaggio nella psiche sempre più instabile e disturbata di questa moderna Jezabel, un personaggio che si attira poca simpatia e solo un po' di pietà nel suo graduale abbruttimento - più spirituale che fisico. Un libro che non mi aspettavo e che mi ha messo molta voglia di tornare a leggere la Nemirovsky.

Virginia



venerdì 29 settembre 2017

Recensione: Un incantevole aprile di Elizabeth von Arnim

Titolo: Un incantevole aprile
Autore: Elizabeth von Arnim
Traduttore: Luisa Balacco
Casa editrice: Bollati Boringhieri
Numero di pagine: 234
Formato: Cartaceo


Un discreto annuncio pubblicitario: «Per gli amanti del glicine e del sole...» apparso sul «Times» è il preludio a un mese rivelatore per quattro donne dalla personalità assai diversa. A picco su una baia della Riviera, tra giardini di calle, violacciocche e acacie, si staglia il castello medievale di San Salvatore. Alla ricerca disperata di sollievo dalle preoccupazioni quotidiane, Mrs Wilkins, Mrs Arbuthnot, Mrs Fisher e Lady Caroline Dester si lasciano allettare da quel paradiso terrestre. Cullate dalla primavera mediterranea, dai monti ammantati di violette e fiori dal dolce profumo, queste donne abbandonano a poco a poco i formalismi di società e scoprono un’armonia da tutte anelata e tuttavia mai conosciuta. Pubblicato nel 1922, e simile per vari aspetti a Il giardino di Elizabeth, questo romanzo è imbevuto di quella capacità descrittiva e di spensierata irriverenza che costituiscono il tratto tipico della scrittura di Elizabeth von Arnim.

Buon venerdì a tutti! Finalmente la settimana è finita ed è arrivato il weekend. Oggi vi parlo di un libro che ha prolungato per qualche giorno l'estate e la sensazione di vacanza dentro di me, facendomi inoltre conoscere una nuova autrice, che da tempo mi incuriosiva: Elizabeth von Arnim.




Questa autrice per molti anni sconosciuta, sta venendo ora riscoperta. Grazie all'interessantissimo blog Libri nella brughiera io già la conoscevo, ma solo un paio di mesi fa in libreria ho deciso di buttarmi e di acquistare uno dei suoi romanzi. Un incantevole aprile non è il suo titolo più noto, anzi. Leggiucchiando in giro, avevo visto dei pareri tiepidi su quest'ultimo lavoro della von Arnim (*mi correggo, è invece una sua opera molto nota ma l'ho scoperto solo in seguito alla recensione!), ma era l'unico suo libro sullo scaffale, quel giorno, e io sentivo che era quello il momento per comprare un suo lavoro, dopo anni di tiepida decisione. Preparata a un libro probabilmente non eclatante, qualche giorno fa mi sono accinta a leggerlo e mi sono trovata davanti una grandissima sorpresa.
L'aggettivo che, fin dalle primissime pagine, ho accostato a questo romanzo è "incantevole". E continua ad essere l'aggettivo più adatto. Ogni cosa, dall'ambientazione alle atmosfere di questa storia ha un'aura di magia, di fiaba senza tempo. Nel momento in cui i personaggi varcano la soglia di San Salvatore e giungono in un'Italia nel pieno della fioritura, qualcosa dentro di loro inizia a cambiare. Ma se Lotty - Mrs Wilkins - sembra assorbire fin da subito questa gioia intima e assoluta e si trasforma senza fatica, lo stesso non può dirsi per le altre tre donne, che lotteranno contro questa sensazione straniante.
Il libro della von Arnim è stato per me un'esperienza assolutamente nuova. La primissima cosa che mi ha colpita è la profonda comunione che si instaura fra i personaggi e il loro stato d'animo e la natura rigogliosa della Liguria. La scrittrice indulge spesso e volentieri in meravigliose descrizioni paesaggistiche, che non sono mai fini a sè stesse ma funzionali a una trama che è costruita sulla corrispondenza fra la bellezza e l'armonia della natura e l'anima umana.

"Lo splendore dell'aprile italiano era ai suoi piedi. Il sole la inondava di luce e il mare giaceva addormentato, muovendosi debolmente. Al di là della baia, anche le incantevoli montagne, dai colori squisitamente variegati, erano addormentate nella luce; e sotto la sua finestra, in fondo al pendio erboso costellato di fiori dal quale si ergevano le mura del castello, un grande cipresso si stagliava come un'enorme spada nera contro le tenui sfumature azzurre, violette e rosa delle montagne e del mare.
(...)
Era la felicità? Com'era povera e mediocre la vita di tutti i giorni. Ma cosa dire, come descriverla? Non stava più nella pelle, era come se fosse troppo piccola per contenere tutta quella felicità, come trovarsi in un bagno di luce. Era sorprendente provare questa beatitudine totale, perchè qui lei si trovava, e non faceva nè avrebbe fatto una sola cosa per gli altri, non doveva fare nulla che non avrebbe desiderato. A sentire le persone che era solita frequentare, avrebbe dovuto perlomeno avere dei dolori.
E invece neanche uno. C'era qualcosa di strano. Era incredibile che a casa fosse sempre così buona, così tremendamente buona, e ne avesse soltanto sofferenze; là si dedicava interamente agli altri ed era vittima di malesseri di ogni sorta: fitte, dolori e momenti di sconforto. E ora che si era spogliata di tutta la sua bontà e l'aveva lasciata alle spalle come un mucchio di vestiti inzuppati di pioggia, non provava che gioia. Denudata della bontà, godeva nel ritrovarsi nuda. Era svestita e raggiante."

Gli inserti descrittivi non sono mai troppo lunghi o prolissi. Al contrario, sono brevi ma incredibilmente suggestivi, incastonati con naturalezza nella narrazione. Una narrazione che ha i pregi di essere leggera e profonda a un tempo. Lo stile della von Arnim è aggraziato, ironico in vari momenti di comicità, eppure lascia nel lettore una sensazione di luce e di calore, come se la magia di San Salvatore si fosse insinuata nello stesso lettore, filtrata dalle pagine del libro. Mi sono ritrovata dunque inevitabilmente coinvolta e partecipe delle emozioni delle quattro protagoniste, che abbandonano il grigiore delle loro vite e riescono a vederle in una nuova ottica proprio a San Salvatore, immerse nella bellezza più assoluta e primitiva - quella della natura nel suo pieno fulgore - e nel silenzio. E così ognuna di loro medita, nella solitudine e nel sole, e si libera di quello strato di spessa menzogna che le avvolge. Ogni finzione cade e, come Lotty, si ritrovano nude davanti a sè stesse. Che cos'è il matrimonio di Rose se non un fallimento, e per colpa sua? Nella solitudine, quando non può annegare l'infelicità nel lavoro e nella religione, può infine capire che, oltre a tutte le incomprensioni e l'amarezza, l'unica cosa che vuole davvero è amare. Di tutti gli esseri presenti sulla Terra, dice lei, non gliene serve che uno. Uno da amare, coccolare, qualcuno con cui condividere anche la gioia, perchè essa è dimezzata nel momento in cui non c'è nessuno con cui condividerla.
L'anziana Mrs Fisher, che si trincera dietro a un passato di glorie ormai defunte, inizia a sentirsi di nuovo viva, nonostante tutta la resistenza opposta. Come una pianta, avverte nuove foglie germogliare dal suo tronco stanco.
Perfino lady Caroline cambia. Lontana dall'opprimente e fasulla società londinese, dagli uomini che cadono sempre ai suoi piedi e che non la lasciano mai in pace, può finalmente guardare dentro sè stessa, guardarsi indietro e con scoprire con amarezza e sgomento quanto vuota e squallida sia stata la sua vita fino a quel momento.

"Si strinse lo scialle intorno come per difendersi, per isolarsi. Non voleva diventare sentimentale, ma qui era difficile non esserlo; la notte meravigliosa si insinuava in ognuno portando con sè, che lo si volesse o no, sentimenti forti, sentimenti che non si potevano controllare, pensieri profondi sulla morte, il tempo, lo spreco; pensieri meravigliosi e devastanti, magnifici e tetri, insieme estasi e tormento, e un desiderio senza fine che spezzava il cuore. Si sentì piccola e incredibilmente sola. Si sentì nuda e indifesa. Istintivamente si strinse più stretta nello scialle. Con questa cosa di chiffon  cercava di proteggersi dall'eternità."

Il più grande pregio di questo libro è quello di unire una lettura più seria e profonda a una scrittura lieve e aggraziata, che permette di non annoiarsi mai.
Nonostante le mie basse aspettative, mi sono trovata davanti un romanzo meraviglioso e insolito, che mi ha colpita moltissimo e mi ha portata a impadronirmi subito di un altro libro di questa autrice, che sento già diverrà una delle mie preferite e che non vedo l'ora di approfondire.
Conoscete Elizabeth von Arnim? Avete mai letto uno dei suoi libri? Per parte mia, la annovero sicuramente come una grande scrittrice del Novecento e in rispetto di ciò la inserisco nel canone mio personale dei classici.

Virginia


lunedì 31 luglio 2017

Recensione: Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen

Titolo: Orgoglio e pregiudizio
Autore: Jane Austen
Traduttore: Maria Luisa Agosti Castellani
Casa editrice: Bur
Numero di pagine: 300
Formato: Cartaceo

I romanzi di Jane Austen, che oggi BUR propone in un unico volume, sono da considerare come il luogo nel quale la scrittrice inglese ha studiato al microscopio l'intera e complessa fenomenologia dell'aristocrazia di campagna inglese, le sue rigidità e le sue perversioni, l'intensa passionalità repressa e il continuo irrisolvibile contrasto tra i valori personali dell'individuo e quelli sociali della collettività. Da "Orgoglio e pregiudizio" a "Emma", da "Mansfield Park" a "Ragione e sentimento", da "Persuasione" a "L'abbazia di Northanger", Jane Austen ha dipinto un immenso affresco di un'epoca, quella dell'Inghilterra vittoriana, piena di risorse e di contraddizioni, e una prosa elegante e ironica.


"È verità universalmente ammessa che uno scapolo fornito di un buon patrimonio debba sentire il bisogno di ammogliarsi."


Questo è uno degli incipit più noti del mondo, per uno dei libri più celebri della letteratura mondiale. Letto per la prima volta a 11 anni (subito dopo Jane Eyre, fra l'altro - una goduria*-*), Orgoglio e pregiudizio è uno di quei romanzi che ho riletto fino alla morte, motivo per cui era da un po' che non lo prendevo in mano. Da un po' di tempo, però, sentivo il bisogno di tornare un po' a frequentare la famiglia Bennet e la botta finale me l'ha data la lettura al mare di un saggio molto bello edito da Flower-ed (sempre cose belle per questa CE*-*), ovvero Jane Austen. Donna e scrittrice di Romina Angelici. Tornata a casa, mi sono quasi subito immersa nella rilettura e, anche grazie alle riflessioni presenti nel saggio, sono riuscita a vedere in una nuova luce un romanzo che non credevo potesse più darmi nulla di nuovo.


Nonostante io abbia letto tutti i romanzi della Austen (alcuni anche più volte), non mi sono mai definita una Jeneite. Il motivo è semplice: per quanto potessi apprezzare i suoi libri, non riuscivo mai a scorgervi quel qualcosa che mi coinvolgesse a livello più viscerale.
Questa volta è successo? 
Si e no.
Come vi dicevo, il saggio della Angelici (che consiglio moltissimo a tutti, anche a chi non ha mai letto nulla dell'autrice) è stato illuminante. Il suo maggior pregio è la completezza: riunisce in una rapida ma precisa carrellata i vari aspetti di questa donna. Di Jane Austen sappiamo tutto e non sappiamo niente: man mano che procedevo con il saggio, mi rendevo conto di come la personalità che emergeva da lettere e biografie fosse ambigua, almeno per me. Da una parte abbiamo una "leziosa farfalla", come viene definita, che salta da un ricevimento all'altro, che ama civettare e spettegolare; dall'altra abbiamo la minuziosa osservatrice che traeva spunto da quanto la circondava per reinserirlo, con la precisione di un bisturi, in quanto scriveva. Di Jane Austen troviamo labili tracce anche nei suoi scritti, se si ha la pazienza di cercare. Se il paragone più ovvio e immediato è quello con Elizabeth Bennet, c'è chi l'ha ritrovata in Anne Elliot (Persuasione) e addirittura in Miss Bates (Emma). Consapevole che ogni suo scritto veniva passato al setaccio da familiari e conoscenti, la Austen cerca però di essere il più invisibile possibile: la sua è una penna che tiene le distanze, la sua è una voce che si mescola così tanto a quelle dei suoi personaggi da apparire solo come un fioco bisbiglio sullo sfondo, quando addirittura non svanisce del tutto. Sicuramente era una scrittrice molto diversa dalla mia adorata Charlotte Bronte, che viene accusata da Virginia Woolf (Una stanza tutta per sè) di non riuscire a separare sè stessa dalle sue storie, da essere fin troppo presente nella voce delle protagoniste; e per questo la Woolf le riteneva superiore la "frivola" Jane Austen.
La Austen univa dunque un carattere poco avventuroso (la sua vita, per certi aspetti, fu incredibilmente piatta e quasi priva di eventi significativi) a uno spirito d'osservazione quasi feroce, una penna acuminata come un bisturi e un senso dell'umorismo vagamente irriverente.
Tutto questo si traduce nei suoi libri, compreso il suo lavoro più noto, Orgoglio e pregiudizio.
L'interessante saggio di Romina Angelici

Di tutte le sue eroine, credo che Elizabeth Bennet sia quella che più le somigliasse. Dall'epistolario della Austen, viene fuori un'osservatrice attenta e una commentatrice arguta, entrambe caratteristiche che appartengono anche a Elizabeth. Come negli altri romanzi dell'autrice, ritroviamo un'ambientazione di campagna, lontano dalla grande città, che ci raggiunge solo per sentito dire. Jane Austen parlava solo di ciò che conosceva, quindi i suoi sono minuti ma precisi disegni di una piccola cerchia di famiglie, quel tanto che basta per movimentare un po' la narrazione e per avere sempre qualche pettegolezzo nuovo. Leggere un libro di Jane Austen, infatti, è come immergersi in un'allegra spettegolata fra comari: oggetto delle chiacchiere non sono - in genere - grandi disgrazie, ma quelle piccole, enormi banalità che caratterizzano le vite comuni: matrimoni, balli, scandali. Lo stile della Austen è frizzante e mai piatto e il lettore sorride spesso e volentieri alla maliziosa ironia dell'autrice, che sembra ammiccare fra le righe. Faccio fatica a comprendere come si possa definire noiosa una narrazione così deliziosa; come si possa disprezzare una scrittrice che è riuscita a racchiudere con una prosa elegante e liscia come l'olio una materia piatta di per sè.
Soprattutto, faccio fatica a comprendere chi legge Jane Austen solo per le storie d'amore. Le sue sono tutto tranne che storie d'amore. Il fatto che il finale sia sempre lo stesso - il matrimonio - non fa altro che sottolineare come per la donna all'epoca non ci fosse altro traguardo da raggiungere che un buon matrimonio. Per questo scrittrici come Jane Austen e le sorelle Bronte si distinguono così tanto e hanno segnato così tanto l'immaginario collettivo: Anne Elliot, parlando con il capitano Wentworth, riflette amaramente su come la donna sia portata dalla società stessa a ossessionarsi su questi temi, non potendo avere altre distrazioni, a differenza degli uomini; Jane Eyre desidera andare oltre il ruolo in cui è incastonata e l'irrequietezza, la brama di qualcosa di diverso le bruciano l'anima.
È indubbio però che una delle ragioni del grandissimo successo di Orgoglio e pregiudizio sia la storia d'amore fra Elizabeth e Mr Darcy. A costo di essere tacciata di eresia e presa a sassate, confesso di non averlo mai amato particolarmente. Col senno di poi, sebbene abbia letto sempre con piacere anche la trama romantica, a incatenarmi alle pagine è sempre stato lo stile della Austen. A piacermi molto, inoltre, è stato ogni volta il processo di cambiamento dei due protagonisti, in particolare di Elizabeth (Darcy è un personaggio che conosciamo soprattutto attraverso gli occhi di Elizabeth; raramente ci è stato concesso di entrare ne suoi pensieri). Se i personaggi di contorno rimangono più che altro delle macchiette fisse, Elizabeth è un personaggio che cambia in maniera netta ma assolutamente credibile. Scossa nella sua più intima certezza - quella di riuscire a interpretare bene le persone - deve rapidamente fare i conti con il pregiudizio che le ha offuscato la mente e rendersi conto di essere, forse, meno intelligente di quel che pensava. Sia per lei che per il lettore è mortificante dover ribaltare completamente l'opinione che si era andata formando di ben due personaggi. Un'amara lezione sulla fatuità delle apparenze e delle prime impressioni (non a caso, il primo titolo ipotizzato per il romanzo è stato First Impressions), sulla base delle quali troppo spesso incaselliamo le persone. Come arriverà a comprendere Elizabeth, l'interesse nato da una personalità più piacevole sembra più vivo di quello dato dato dal rispetto e dall'ammirazione, che però sono basi molto più solide sulle quali costruire il proprio futuro. 
Con questa riflessione mi collego a un altro argomento molto caro a Jane Austen: il matrimonio. Come scrivevo poco più sopra, il matrimonio rappresentava la maggiore aspirazione per tutte le donne dell'epoca perchè non potevano averne altra; inoltre, le donne avevano bisogno del matrimonio per cementare la propria posizione e assicurarsi una vita di agiatezze. Se si riusciva ad accalappiare un buon partito, certo. In Orgoglio e pregiudizio abbiamo rappresentate le due posizioni femminili riguardo al matrimonio dai personaggi di Elizabeth Bennet e di Charlotte Lucas: la prima non concepisce di sposarsi se non per amore, la seconda considera le cose in maniera più cinica e, pur di assicurarsi una propria autonomia, acconsente a un matrimonio assolutamente degradante.
La maggior parte dei lettori non apprezza il personaggio di Charlotte Lucas; la stessa Jane Austen, che piuttosto che sposarsi senza vero amore è rimasta zitella (o single, come preferisco ioxD) tutta la vita, non doveva ritrovarsi molto in quella decisione. 
Per parte mia, Charlotte mi è sempre piaciuta e l'ho sempre capita. All'epoca il matrimonio era considerato l'unica forma di autonomia che una donna potesse raggiungere. Charlotte, ormai ventisettenne (per l'epoca un caso disperato), si aggrappa all'unica occasione che le si offre per fuggire un destino di totale dipendenza: prima dai genitori, poi dai fratelli. L'unico destino che si prospetta a donne prive di mezzi e nubili è quello di lavorare, e anche in quel caso si tratta di una scelta molto più limitata. Coerentemente con la sua epoca, Charlotte fa una scelta unicamente di comodo. Come lettrice, non mi sono mai sentita di biasimarla per questo.

Come scrivevo poco sopra, Jane Austen era famosa per essere una fine osservatrice e per divertirsi molto nel rapportarsi con le bizzarrie e le originalità dei conoscenti. In questo senso, i personaggi secondari dei suoi lavori sono senz'altro degni di nota. A parte i casi dove il personaggio riveste un ruolo negativo (per fare un esempio, Caroline Bingley), la Austen si diverte alle spalle delle sue creazioni senza cattiveria. Nonostante ciò, l'ho sempre trovata molto dura e anche, per certi aspetti, sottilmente crudele. 
Per farvi capire al meglio, prendo in esame un personaggio che, in questo specifico caso, mi ha colpita: Mary Bennet. Delle cinque sorelle, Mary è sicuramente la più trascurata: Elizabeth e Jane sono le protagoniste; Lydia, pur nella sua negatività, è ben caratterizzata; Kitty appare principalmente come spalla di Lydia ma raggiunge una sua redenzione finale. Mary è, per certi versi, la sorella dimenticata. Non ci sono parole buone per lei ma solo una risatina di scherno. Mary è noiosa, pomposa, bruttina e stima un po' troppo la propria intelligenza. Mi ha sempre colpita la totale assenza di pietà per questo personaggio-tipo: oggetto di scherno ma mai abbastanza negativo da meritarsi altro che ridicolo. Questo mi ha sempre dato un po' un'idea di una Jane Austen fin troppo portata a ridicolizzare ciò che le stava attorno (senza magari tenere conto delle proprie bizzarrie e ridicolaggini - tutti le abbiamo), senza lasciare mai il posto a un po' di comprensione: Mary è considerata la brutta della famiglia. Incapace di competere le sorelle in tema di bellezza e matrimonio (ricordiamo che per l'epoca - e spesso e volentieri anche adesso - alla donna non era richiesto che essere bella), decide di buttarsi nello studio. Non particolarmente ingegnosa di suo, finisce - senza neanche accorgersene - per coprirsi di ridicolo. Jane Austen, però, non le concede la minima pietà.

Gli argomenti da trattare riguardo a questo libro sarebbero molti altri, e non sarei la prima a farlo. Per questo ho preferito concentrarmi su temi meno discussi - spero - o che comunque alle prime letture avevo percepito meno. Crescendo cambia l'approccio coi libri letti da più giovani, è inevitabile. Nel caso della Austen, la maturità ha portato più riflessione, anche se non maggior gradimento. Nonostante riconosca la bravura di quest'autrice e nonostante i suoi libri mi piacciano, continuo a non essere una sua fan sfegatata. 
E voi, cosa ne pensate della famosissima Jane Austen? Condividete la mia opinione o ne avete una contraria?

Virginia

venerdì 31 marzo 2017

Recensione: La legge e la signora di Wilkie Collins

Titolo: La legge e la signora
Autore: Wilkie Collins
Traduttore: Luca Scarlini
Casa editrice: Fazi
Numero di pagine: 402
Formato: Cartaceo

La Legge e la Signora, opera della maturità di Wilkie Collins, oltre a presentare diversi elementi della moderna letteratura di genere, è il primo esempio di romanzo poliziesco che ha per protagonista un investigatore donna. La vita matrimoniale di Valeria ed Eustace Woodville inizia sotto cattivi auspici. Un piccolo incidente durante la celebrazione del rito sembra confermare il clima di diffidenza e sospetto che lo ha accompagnato e che cresce ulteriormente quando, durante la luna di miele a Ramsgate, la donna viene a sapere che il vero cognome del marito è Macallan. Tornata a Londra, decisa ad andare fino in fondo, scopre che anni addietro Eustace è stato accusato di aver avvelenato la prima moglie ed è stato assolto per insufficienza di prove. Per salvaguardare il suo matrimonio, Valeria s’improvvisa detective: è convinta dell’innocenza del marito e determinata a ristabilire la verità. Si troverà così ad affrontare problemi ritenuti “inadatti a una donna”, riuscendo a venirne a capo e dimostrando la fondatezza delle proprie azioni, che tutti stigmatizzavano come folli e avventate.
Strepitoso ritratto di una donna che non esita a opporsi ai modelli e alle regole della società vittoriana, La Legge e la Signora è una narrazione coinvolgente e di grande fascino da leggere – come ogni romanzo di Collins – tutto d’un fiato.
«I romanzoni di Wilkie Collins sono viaggi irresistibili: agganciano subito il lettore, che quando parte non riesce più a fermarsi»
Leonetta Bentivoglio
«Wilkie Collins è famoso, nei manuali di letteratura, per avere scritto nel 1868 il primo giallo. Ma non eccelle solo nella suspense. È anche uno scrittore di sentimenti. Ed eccelle nella pittura dei personaggi».
Antonio D’Orrico

Buongiorno a tutti cari lettori, finalmente ritorno con una recensione. Vi dico fin da subito che per il primo del mese salterà la CineRecensione e il motivo è semplice: di film ne ho visti, ma nessuno che mi ispirasse un intero articolo o delle particolari riflessioni. Quindi, appuntamento al 15 con la nostra chiacchierata cinematografica.

Altra informazione di servizio. Purtroppo, a causa di un imprevisto, mi ritrovo parecchio impegnata la sera (momento in cui mi dedico al blog). La situazione non promette di sistemarsi, motivo per cui ultimamente il blog ha stentato un po' ad andare avanti (in generale, non si può dire che sia un momento vitale per il mio Labirinto). Come ogni volta, mi riprometto di impegnarmi maggiormente, e lo vorrei davvero, ma ho paura di non riuscire a mantenere questo mio proposito. Motivo per cui mi limito a rassicurarvi che no, non ho intenzione di sparire. Cercherò di impegnarmi il più possibile ma non vi posso garantire nulla.
Concluse le faccende meno simpatiche, eccovi la mia recensione.
Wilkie Collins per me è una garanzia. Ho cominciato con La donna in bianco e me ne sono innamorata pazzamente (anche grazie alle meravigliose cover della Fazi, che sono una gioia per gli occhi). Ogni volta che questa interessantissima casa editrice ci propone un nuovo lavoro di Wilkie Collins, io l'acquisto subito. E così ho fatto anche con La legge e la signora. Però l'ho lasciato sullo scaffale per mesi (nulla di nuovo insommaxD), finchè non ho scoperto che la ripubblicazione di Basil è imminente (*-*) e ho sentito la necessità di leggere questo volume.
Come forse ricorderete, quello che è considerato il capolavoro di Collins (La pietra di Luna) mi aveva un po' delusa, forse per le aspettative troppo alte. Ecco, questo nuovo titolo su cui non avevo mai letto nulla di particolare, invece, mi ha completamente stregata, scalando rapido la classifica e piazzandosi subito sotto la fenomenale accoppiata La donna in bianco/Armadale.
Ancora una volta ci troviamo davanti a un mistery e l'ambientazione è sempre un'Inghilterra un po' gotica. Valeria, fresca sposa di Eustace, si ritrova a dover scavare nel passato di suo marito e, in seguito a una sconvolgente scoperta, dovrà mettersi in gioco per chiarire ciò che vi è di irrisolto, pena l'infelicità.
Vorrei provare ad essere il più concisa possibile, per non annoiarvi troppo.
Ad avermi colpita  in modo particolare in questo romanzo sono alcuni aspetti.
Innanzitutto, la protagonista. 
Wilkie Collins ci delizia sempre con personaggi femminili assolutamente originali e, soprattutto, degni di nota. Davanti al mistero Valeria non si tira indietro; davanti a scoperte inimmaginabili non si perde d'animo; davanti a sfide che hanno sconfitto uomini (in un periodo dove le donne avevano l'unico ruolo di essere belle) lei persevera e porta alla luce la verità. In questa sua impresa si incontra e scontra con vari personaggi, ma uno in particolare è riuscito a spiccare fra tutti e a conquistarsi, nonostante tutto, la mia simpatia: Miserrimus Dexter, mezzo uomo e mezzo macchina - com'è descritto -, nato privo delle gambe. Personaggio assolutamente sopra le righe, talvolta animalesco, talvolta femmineo; scaltro, magnetico, folle. Nel libro la sua è una personalità ambigua che si protende e oscura tutta la seconda metà della narrazione e Valeria dovrà fronteggiare questa presenza tentacolare e inafferrabile. Preda lei stessa di sentimenti contrastanti (da una parte prova repulsione, dall'altra un'istintiva simpatia e compassione), Valeria cambia continuamente idea su di lui, ma non può non rimanerne affascinata e, talvolta, quasi soggiogata. Che differenza - mio parere - con l'insipido marito!
Ebbene si, nonostante Valeria lo ami alla follia (e quante volte rende partecipe il lettore della sua totale devozione a Eustace!), Eustace è noioso a essere gentili. Ciò che emerge dal suo passato, sebbene non smuova Valeria di un millimetro, l'addolora comunque. E il lettore stesso, nonostante Valeria cerchi di addolcire la pillola, non potrà più leggere di Eustace con gli stessi occhi. A mio parere si è trattato di un personaggio odioso, l'eroe imposto quando sbiadisce alla sola ombra dei veri protagonisti: l'intraprendente Valeria e il magnetico Miserrimus.
Ciò che più mi è piaciuto di Valeria è che - nonostante qualche commentino un po' sessista lanciato da Wilkie - è assolutamente moderna. Sfida le convinzioni e si mette contro gli amici (addirittura contro il marito!) per portare a termine l'obiettivo che si è preposta. E se inizialmente è solo in funzione di Eustace che si imbarca in questa impresa, con il passare del tempo le cose cambiano: non è più solo per Eustace, è per lei stessa. La sua diventa una sfida al mondo e a sè stessa: dimostrare che ce l'ha fatta, nonostante tutto e tutti. E per portare fino in fondo la sua decisione, si espone a critiche feroci e a offensive incredulità. Mi è piaciuta l'ostinazione di Valeria e anche il suo buon cuore, perchè sotto quella sostenutezza tipica degli inglesi c'è un animo sensibile, come si dimostra nei suoi rapporti con Dexter.
Con Dexter Collins affronta una tematica molto importante: quella della disabilità. Come dicevo, Dexter è nato senza gambe e da sempre pende sulla sua testa la minaccia della follia. Il suo temperamento instabile è destinato a naufragare, prima o poi, nel delirio. Ora, bisogna tener conto del periodo in cui è stato scritto il romanzo, ovviamente. Dexter è definito a più riprese mostruoso, ma credo che la vera deformità che colpisce i personaggi sia quella della mente, più che quella del corpo. Il carattere sopra alle righe di Dexter, infatti, se da un lato può rivelarsi ammaliante, è comunque molto inquietante, perfino un po' spaventoso. Se nella vita dovessi trovarmi davanti un uomo del genere, non so come reagirei. Lo stesso accade nel romanzo, dove i personaggi si sentono minacciati dall'instabilità di Dexter e si irrigidiscono di conseguenza.
Sullo stile di Wilkie Collins non c'è molto da dire. Le sue erano narrazioni un po' noir, gotiche, intrecciate con il mistery e, spesso e volentieri, con la superstizione: sogni premonitori, segni nefasti. Nei suoi libri espedienti simili sono all'ordine del giorno, e mi rendo conto che potrebbero non piacere a tutti. Io le apprezzo (tanto più che mi ricorda le mie amate sorelle Bronte*-*), trovo che diano quel tocco di esotismo alla narrazione.
La legge e la signora - come La pietra di Luna - è un romanzo che si occupa soprattutto della parte propriamente di indagine, tralasciando altri argomenti più sociali e che nei suoi romanzi - con uno sviluppo più o meno importante - troviamo sempre. La prossima pubblicazione, Basil, mi sembrerebbe più improntato, invece, su tematiche meno "di genere", diciamo. Vi saprò dire sicuramente, perchè io per ora ho amato ogni suo lavoro e non vedo l'ora di acquistare anche il prossimo.

Virginia

sabato 18 marzo 2017

Recensione: Notre-Dame de Paris di Victor Hugo

Titolo: Notre-Dame de Paris
Autore: Victor Hugo
Traduttore: Luigi Galeazzo Tenconi
Casa editrice: Bur
Numero di pagine: 537
Formato: Cartaceo

Esmeralda, una giovane zingara di grande avvenenza, è solita danzare sul sagrato della chiesa di Notre-Dame, cuore della Parigi medievale. L'arcidiacono Frollo è attratto dalla giovane donna e, pur fra sentimenti contraddittori, cerca di farla rapire dal campanaro Quasimodo, un essere deforme fino alla mostruosità. Ma il capitano Phoebus de Châteaupers la trae in salvo e conquista il suo amore. Una vicenda melodrammatica, tetra, grottesca, che ha commosso lettori di tutti i tempi e spesso ispirato il mondo del cinema.

A 10 anni dalla prima (disastrosa) lettura, sono tornata a visitare la Parigi del 1482 e la meravigliosa Notre-Dame. Mi aspettavo una lettura complessa e difficile, resa meno agile soprattutto dallo stile di Hugo, dal suo ricco periodare, dal suo amore per la divagazione.
Certamente Hugo si riconferma un autore ingombrante. La sua voce permea tutta la narrazione e non ci permette mai di dimenticare che questa triste storia ci viene narrata per mezzo di un messaggero: lui stesso.
Ora, molti di voi conosceranno questo capolavoro della letteratura grazie alla versione cartone della Disney. Io in primis, al mio primo approccio, constatai con una certa sorpresa che, se i nomi erano familiari, molto di meno lo erano le vicende. Certo, rimane una base: una zingara, un soldato, un prete e un campanaro. A cambiare è tutto il resto, comprese le dinamiche fra alcuni di loro.



"Trecentoquarantotto anni, sei mesi e diciannove giorni or sono i parigini si svegliarono allo squillo di tutte le campane, che suonavano a distesa nella triplice cerchia della Città Vecchia, dell'Università e della Città.
Eppure, il 6 gennaio 1482 non è affatto un giorno di cui la storia abbia serbato ricordo."

Comincia con questa data quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo storico. Quel giorno a Parigi non si festeggia solo l'Epifania ma, ancora più importante, è il giorno della Festa dei Folli: un giorno di pazzie e stravaganze per il popolo.
Nel giro di qualche capitolo, i personaggi principali vengono posti sulla scena dall'autore. Quella, però, che folgora tutti, dai personaggi di finzione allo stesso lettore, è lei: l'Esmeralda.

"Non era alta di statura, ma lo sembrava, tanto la sua vita era snella e slanciata. Era bruna di carnagione, ma si indovinava che la sua pelle, di giorno, doveva avere il bel riflesso dorato delle andaluse o delle romane. Anche il suo piedino era andaluso, poichè era stretto e al tempo stesso a suo agio nella graziosa calzatura. Ballava, girava su sè stessa, vorticava su un vecchio tappeto persiano negligentemente disteso sotto i piedi; e ogni volta che, girando, lo splendido suo visino vi passava innanzi, i suoi grandi occhi neri vi gettavano un lampo.
Attorno a lei tutti gli sguardi erano fissi, tutte le bocche spalancate. E infatti, mentre ella così danzava, al suono del tamburello basco che le sue braccia, pure e ben tornite, sollevavano sopra la testa esile, fragile e vispa come un'ape, con il corsetto d'oro senza pieghe, la gonna variopinta che le si gonfiava attorno, le spalle nude, le gambe fini, che la gonna, tratto tratto, scopriva, i capelli neri, gli occhi di fiamma, era una creatura soprannaturale."

Fin dall'inizio Esmeralda appare esotica, impalpabile, ultraterrena. La sua bellezza sensuale - ancor più intensa perchè unita alla giovinezza e all'innocenza - incanta non solo il poeta Pierre Gringoire, ma anche uno strano, inquietante figuro in cui il lettore riconoscerà presto Claude Frollo.
L'arcidiacono di Notre-Dame è uno dei protagonisti di questo romanzo, una figura tragica, meschina, crudele di volta in volta. Ma, se volessimo usare lo stesso linguaggio di Hugo, potremmo definirlo fatale.
Come ci dice lo stesso scrittore nell'Avvertenza a inizio libro, tutta la vicenda si plasma sulla parola Ananche da lui ritrovata un giorno nei recessi oscuri di Notre-Dame, scolpita nel muro di una delle sue torri. Questa parola appartiene al lessico della tragedia greca e in italiano è tradotta come "fatalità", "necessità".
La Fatalità regna incontrastata nella Parigi di Hugo, dove nulla avviene per caso e ogni evento che si compie sfugge all'umano arbitrio, fino ad assurgere ad una crudele e impietosa Necessità.
L'attrazione che Esmeralda esercita su Frollo è dunque "orchestrata" dalla Fatalità. E così alla gioventù e alla spontaneità della zingara si oppone l'arcidiacono, già vecchio a 35 anni, uomo incatenato al suo ruolo di religioso da decenni e che per anni ha trovato una ragione per vivere solo nello studio e nella dedizione al dovere. Un uomo che ha però una grandissima fame d'amore, che inizialmente trova sfogo nell'accudire il fratello Jeahan, di molto più giovane e rimasto orfano da neonato. Per lui deciderà di adottare un bambino orribile e deforme abbandonato davanti alla cattedrale e destinato dal volere pubblico alla morte.
Nel momento in cui vede Esmeralda, il delicato equilibrio instauratosi fra il dovere e la passione si spezza, precipitando l'arcidiacono in un vero e proprio furor amoroso.




Quella di Frollo è una follia amorosa che sconvolge i sensi. Tutto quanto vi è di buono in lui viene spazzato via da una passione soverchiante, totalizzante.

Un altro personaggio importantissimo - ma totalmente travisato nella versione Disney - è Quasimodo, il gobbo, il campanaro di Notre-Dame. La sua è una vicenda tristissima a cui Hugo concede solo uno spazio limitato.



Che dire di Quasimodo, che è guercio, gobbo, zoppo e sordo? Che è stato abbandonato dai genitori, odiato fin dalla nascita? La cattiveria degli altri lo ha incattivito, la sua solitudine lo ha reso selvatico. Neanche la bellezza e la grazia di Esmeralda lo toccano. Il momento in cui il suo cuore indurito viene scalfito è quando la zingara, presa a compassione, gli porta da bere mentre è sulla ruota. La portata del gesto, per Quasimodo, è epocale. Prima di lei, solo un altro essere vivente gli aveva mostrato pietà: Frollo, che lui ama come un cane ama il padrone.
Le dinamiche fra Quasimodo ed Esmeralda diventano il simbolo dell'eterna dialettica fra il brutto e il bello, qui portato quasi a uno stato ideale: la Bellezza e il Grottesco. Hugo, però, ribalta l'ideologia di stampo greco del "kalòs kai agathòs" ("bello e buono"), che vede una corrispondenza fra la bellezza esteriore e quella interiore. Disconosce questa corrente di pensiero nel momento in cui mette in scena Phoebus e lo mette in comparazione con Quasimodo.
Phoebus è il personaggio più negativo di tutto il romanzo. Hugo si accanisce su di lui e disegna un uomo stupido, superficiale e crudele (una crudeltà data dall'indifferenza). Ovviamente, è il personaggio a cui le cose vanno meglio, perchè la stupidità spesso si accompagna a una sua ebete forma di felicità.
Quasimodo, invece, che è orrendo fuori, è anche sincero e devoto nel suo amore e si sacrifica senza nulla chiedere in cambio, senza aspettarsi nulla.



Tre sono i personaggi femminili rilevanti nel romanzo: Esmeralda, Fiordaliso e Gudule. La terza, sebbene si leghi a tutto un filone di trama piuttosto importante, non è nota; Fiordaliso compare almeno nello spettacolo teatrale.
Ora, Esmeralda ve l'ho già presentata, ma approfondiamo ulteriormente.
Ci viene delineata come una bimba, una bimba inconsapevole della propria carica di sensualità. È bella ma ancora acerba, e il suo amore ha il candore e l'assolutezza della prima passione. Sempre accompagnata dall'adorabile capretta Djali, canta e danza, e quando è contrariata le compare sul viso un piccolo broncio. Non è una femme fatale: con Phoebus è impacciata e timida, e fin troppo sincera. Semplicissimo, per Phoebus, ingannarla; semplicissimo, per lei, perdersi per amore.
Fiordaliso è in tutto opposta a Esmeralda: una bionda e l'altra è bruna; una è nobile e l'altra è zingara; una è ricca e l'altra chiede l'elemosina ballando nelle strade. Unico anello di congiunzione è l'amore - in entrambi i casi non ricambiato - per Phoebus. Ma se una è la fidanzata, l'altra è l'amante.
Alla fine, anche per Fiordaliso - che pure non trascura di abbandonarsi a qualche meschinità - il lettore prova una certa compassione. Cieca per amore e gelosa, il suo ruolo nella storia è quello di infelice comparsa. Il futuro che le si prospetta - la disillusione, il dolore, l'amarezza, la rassegnazione - è ancora più triste.
Infine, Gudule, la reclusa. Incatenata da 15 anni al Buco dei Topi, protagonista di una storia straziante (che ricorda un po' quella della Fantine de I miserabili), il lettore assiste alla sua cattiveria, al suo dolore, alla sua disperazione.

Questi sono i personaggi principali del dramma. Ad essi Hugo affianca tutta una serie di tematiche che percorrono tutto il romanzo, intrecciandosi fra di loro. 
Ho già parlato di quella principale, che fa da motore a tutta la vicenda: l'inesorabile Ananche.
Un altro dei temi che ricorre in tutto il romanzo è quello della scrittura.
L'architettura è stata per secoli la principale forma di comunicazione. Partita come goffi sgorbi pietrosi, si è affinata e trasformata, fino ad arrivare alla magnificenza delle cattedrali, di Notre-Dame. Laddove la parola scritta era rara, costosa e fragile, la pietra è stata il maggior legame fra l'uomo e il divino. A un certo punto si assiste, però, a una trasformazione. A Gutenberg viene inventata la stampa e sarà proprio Frollo, simbolo della religiosità e della cultura (allora strettamente legate) a intuire come il libro sarà la morte della pietra.



Uno dei grandi paradossi del romanzo (e del Medioevo tutto) è la convivenza della magnificenza e dell'ignoranza, del sublime con il sudicio. In quei secoli di cattedrali e filosofia, nello stesso consesso di maggior cultura (la Chiesa), convivono una profonda scienza e un duro sostrato di superstizione. Lo possiamo vedere sempre nel personaggio di Frollo, che ci viene presentato come un grande dotto, che conosce il latino, il greco e l'ebraico; che ha studiato la filosofia, la medicina, la teologia. Eppure, come impiega la sua profonda conoscenza questo grande saggio? Tenta di trasformare il piombo in oro, rinnegando ogni studio che non sia quello dell'alchimia.
Nella stessa giurisdizione del tempo troviamo casi che già ai tempi di Victor Hugo fanno sbarrare gli occhi per l'incredulità: in vari casi giudiziari di accusa di stregoneria, oltre alla strega viene messo a morte anche il suo animale domestico (non prima di avergli richiesto una confessione, certo), accusato di essere posseduto dal demonio.
Ma le contraddizioni di quest'epoca ormai tanto lontana non sono finite. Come spiegare, solo a Parigi, la convivenza di innumerevoli patiboli e altrettanti luoghi dove è possibile ricevere asilo, e alla legge umana non è consentito accedere? Come dice lo stesso Hugo, è come se le une volessero porre rimedio alle altre, e viceversa.
Il Medioevo che dipinge Hugo, insomma, è un coacervo di contraddizioni; la sua Parigi è un ribollire di controsensi, di varia umanità, di tensioni religiose, politiche e sociali. 
E in uno dei capitoli finali dell'opera Hugo non risparmia una feroce critica alla monarchia, e una predizione: un giorno il popolo si leverà, e allora ci sarà la Rivoluzione.
Come si è intuito, ho amato moltissimo questo romanzo. Per concludere, vi lascio la canzone più bella del musical, sperando che la colonna sonora che ho scelto per voi vi abbia finora piacevolmente accompagnato (e magari convinto a dare un'opportunità allo spettacolo teatrale, se non al libro):)





Virginia









mercoledì 22 febbraio 2017

Recensione: Le due torri di J.R.R. Tolkien

Titolo: Le due torri
Autore: J.R.R. Tolkien
Traduttore: Vicky Alliata di Villafranca
Casa editrice: Bompiani
Numero di pagine: 300
Formato: Cartaceo

In questo secondo romanzo della trilogia di Tolkien, gli amici della Compagnia dell'Anello lottano separati. Merry e Pipino sono fatti prigionieri dalle forze del Male, ma riescono a fuggire e trovano soccorso in uno strano mondo di esseri giganteschi, mezzo vegetali e mezzo umani. Aragorn, un enigmatico personaggio che si era unito alla Compagnia all'inizio dell'impresa, stringe alleanza con i guerrieri di Rohan, un popolo fiero che per secoli ha resistito all'assalto delle tenebre. Frattanto Frodo e il devoto Sam si imbattono in Gollum, un viscido essere che era stato l'antico possessore dell'Anello, e lo costringono a condurli verso Monte Fato. Ma spaventose creature li attendono al varco e il loro cammino si interrompe tragicamente. Prefazione alla seconda edizione inglese di J. R. R. Tolkien.


Salve a tutti lettori e buongiorno:) L'ultimo mio articolo era all'insegna dell'ansia e della depressione più nera a causa di un esame imminente. Be', l'esame è andato (e anche molto bene), quindi il sole è tornato a splendere e l'ansia si è sciolta come neve al sole e io mi godo una piccola settimana di vacanza prima di buttarmi nuovamente nello studio (questa volta tocca a Storia Romana). Culmine della mia settimana sarà mercoledì sera, quando parteciperò a un evento davvero molto speciale e del quale non vedo l'ora di parlarvi qui sul blog, quindi restate collegati;)
Con il tempo finalmente libero dallo studio, ho potuto riprendere in mano Le due torri, temporaneamente abbandonato nei giorni immediatamente precedenti all'esame, e in brevissimo tempo l'ho terminato. Eccomi qui dunque a parlarvene, e questa volta ho davvero un bel po' di cose da dire, quindi preparatevi!


Con Le due torri Tolkien riprende la narrazione nel punto esatto in cui l'aveva interrotta: Aragorn, Legolas e Gimli accorrono in aiuto di Boromir; Pipino e Merry sono prigionieri degli orchi; Frodo e Sam proseguono da soli il viaggio verso Mordor.
Ancor più che per il primo libro, non posso non prendere in considerazione anche il film nel fare questa recensione. Innanzitutto perchè la trilogia cinematografica fa ormai parte in maniera indelebile dell'immaginario collettivo ed è diventata un unicum (almeno nel mio caso) con i libri; in secondo luogo perchè le differenze con il libro cominciano ad essere piuttosto pesanti, e spesso portano a male interpretare alcuni personaggi, se non delle tematiche stesse del romanzo.
Ma andiamo con ordine.
La prima differenza che mi ha molto infastidito, e che secondo me indica una interpretazione sbagliata del pensiero di Tolkien, potrebbe apparire una sciocchezza. Appena prima che scoppi la battaglia al Fosso di Helm, giunge in aiuto a Rohan una truppa di arcieri elfici inviati da Elrond. Nei film il tema dell'aiuto reciproco, del rinsaldarsi di antiche alleanze da tempo dimenticate è uno dei più importanti, uno dei fulcri dell'intera vicenda. 
Nel libro Elrond non manda alcun aiuto.
Potrebbe sembrare una differenza di poco conto, e in effetti lo è. Il punto è che, a mio parere, Tolkien ci manda in tutta la trilogia un messaggio ben preciso e questa modifica lo vanifica. Nella mia rilettura, infatti, ho improvvisamente realizzato che Il Signore degli Anelli è una storia sugli Uomini. Se le opere precedenti di Tolkien (Lo Hobbit, Il Silmarillion e i vari racconti) sono infatti piene di creature magiche e incantesimi, in quest'ultimo pezzo di storia di Arda tutto è ormai in decadenza: i Draghi sono tutti scomparsi, i Nani non si fanno ormai più vedere da tempo e gli Elfi stanno abbandonando queste sponde. Le uniche eccezioni sono gli Hobbit e gli Ent, ma di loro parlerò dopo.
Credo che questa scelta sia stata simbolica. Ormai la magia sta abbandonando la Terra di Mezzo, ciò che ne rimane sono solo vestigia di un passato favoloso e quasi dimenticato e gli Uomini, eredi della terra, devono battersi per essa contro il Male. Male a cui, lo ricordo, sono straordinariamente sensibili e vulnerabili. 
Come vi dicevo, Ent e Hobbit sono casi un po' particolari. 
Decidendo di rendere gli Hobbit protagonisti della storia - loro, così piccoli e comuni - Tolkien ci mostra come le imprese grandiose non siano appannaggio di soli uomini eccezionali, anzi. Come dice Sam nel corso del romanzo, infatti, gli eroi veri, quelli che vengono ricordati, non sono quelli che si buttano alla ricerca del pericolo ma quelli che vi si trovano coinvolti malgrado la loro volontà; e nonostante tutto vanno avanti, sapendo che è la cosa giusta da fare (questa scena, nel film, è davvero da gonfiare il cuore di commozione). Gli Hobbit, quindi, sono in realtà poi un lato dell'umanità, quello della quotidianità, delle piccole cose.
Con gli Ent il discorso è un po' diverso e si coinvolge un'altra delle tematiche più importanti del romanzo e, poi, dell'intera trilogia. Una delle opposizioni più forti della storia, infatti, è quella dell'industrializzazione (definiamola così) contro la natura. Lo scontro tra gli Ent e Saruman diventa il simbolo di questo scontro. Inutile dire che nella visione di Tolkien l'industrializzazione ha un carattere fortemente negativo: Saruman distrugge tutto ciò che è intorno alla sua torre, sfregia la terra creando pozzi, fa incroci abominevoli. Ma la forza della natura, si sa, è irrefrenabile, e nel romanzo è rappresentata dai millenari Ent.


Le altre due grandi differenze con il film, quelle che non mi sono piaciute, coinvolgono due personaggi.
Il primo è Faramir. La natura di questo personaggio viene totalmente stravolta nel film, dove cede (anche se solo temporaneamente) alla tentazione dell'Anello; nel libro, invece, non vacilla mai, in netta contrapposizione col fratello Boromir. È come se Faramir rappresentasse l'intelligenza e Boromir l'istinto, entrambi presenti nell'uomo e, forse, nodo centrale della sua lacerazione interiore. Tolkien ci mostra due reazioni diverse al Male e alla tentazione: se uno cede, l'altro resiste.
L'altro personaggio che viene letteralmente massacrato nel film è quello di Frodo. Io, da amante dei film, l'ho sempre ritenuto un personaggio insopportabile. Nel leggere i romanzi, Frodo è diventato uno dei miei personaggi preferiti. Nel libro Frodo è un personaggio del tutto particolare e che mi ha fatto fare tutta una serie di riflessioni, alcune anche abbastanza contrastanti fra di loro.
La prima, e la più immediata, è che Frodo mi ricorda un po' Gesù. Nel primo libro è solo uno Hobbit qualunque ma qui qualcosa è cambiato. Non è più il Frodo di prima e questo lo vede anche Sam. Più in generale, si potrebbe fare il parallelo in seguito a una considerazione: Gesù è venuto sulla Terra, secondo l'ideologia cristiana, si è fatto carico del peccato dell'umanità e lo ha espiato immolandosi. Frodo si addossa la responsabilità di portare l'Anello al Monte Fato (l'Anello che è emanazione stessa del Male). Nel farlo (SPOILER) Frodo morirà, e dentro di sè lo sa anche lui.
Ma altre mie riflessioni si sono intrecciate al personaggio di Frodo. Nelle Scritture ogni volta che ci si riferisce a Dio si usa la maiuscola (Dio, Suo figlio, eccetera). Questo formalismo viene ripreso da Tolkien, ma riferito a Sauron. Ora, sembra una stupidaggine, però ho anche riflettuto che Tolkien non era una persona qualunque ma un docente universitario, e fra l'altro di Oxford, dove insegnava filologia anglosassone. Il suo curriculum è piuttosto vasto, ma quello che voglio dire è che non credo che uno studioso di questa portata, un filologo per giunta, dunque uno studioso delle parole, possa utilizzarle a caso. Sono convinta, quindi, che la sua sia stata una scelta precisa, e anche piuttosto significativa. 
Sauron, dunque, viene in un qualche modo accomunato a Satana e a Dio. In ogni caso viene rivestito di una presenza talmente ingombrante da non trovare spazio sulla scena: come Dio e il Diavolo, Sauron è spesso nominato ma mai visto concretamente. Allo stesso tempo, mi sono resa conto che a un unico centro di potere malvagio (Sauron) non veniva contrapposto un unico centro compatto positivo. Se l'ideologia cristiana, mantenendo questa chiave di lettura, contrappone Dio e Satana, Tolkien schiera Sauron contro... apparentemente nessuno. Perchè i "buoni" sono separati, sparsi per la Terra di Mezzo, a loro volta inquinati dal Male. Quindi Sauron sarebbe Satana? Dio, addirittura? Una sorta di scontro fra monoteismo moderno e politeismo pagano, per ritornare anche all'opposizione fra industrializzazione e natura?
So che questi discorsi sembrano abbastanza cervellotici (se non addirittura campati per aria), ma giuro che mi sono nati spontaneamente durante la lettura. Una lettura che mi ha dato molto da pensare, come potete vedere. A questo punto chiedo anche a voi. Se lo avete letto, avete mai dato una lettura simile alla mia? Se no, che interpretazione avete dato?
Chiudo condividendo un video bellissimo su Sam. Come ricompensa per esservi sciroppati tutte queste chiacchierexD


Un saluto a tutti, al prossimo articolo:-*
Virginia