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Titolo: L'isola di Arturo Autore: Elsa Morante Casa editrice: Einaudi Numero di pagine: 379 Formato: Cartaceo |
Questo è il secondo romanzo che leggo e recensisco di Elsa Morante (qui la mia recensione de La Storia) e ormai è irrimediabile: sono innamorata. Di questo libro ancor più del precedente, se possibile. Si, non ci credevo all'inizio, ma questo romanzo mi è piaciuto ancora di più del precedente, anche se mi ci è voluto un po' per entrare nella storia e metabolizzare le differenze.
Cominciamo da quelle.
Nella Storia una delle cose che mi avevano incantata più di tutti era stata la lingua, lo stile di scrittura della Morante. Se ne L'isola di Arturo abbiamo uno stesso stile ricco e stratificato, con l'utilizzo di termini alti e dialettali insieme (si vede che sto studiando letteratura italiana, eh?xD), sempre lo stesso amore per la Parola e tutte le sue inflessioni, abbiamo però anche una significativa differenza. Garboli - che ha curato il commento alla mia edizione - definisce questo romanzo "Una piccola, criptica Achilleide resuscitata" e, in effetti, questo romanzo sembra talvolta un piccolo, intimo poema epico e di questo filone ha lo stile, specie agli inizi. Questo comporta l'utilizzo di un registro "epico", appunto.
Ciò che cambia è l'argomento del poema. Non si narra di guerre (anche se l'ombra della Seconda Guerra Mondiale incombe), di eroi o amori impossibili.
O meglio, si narra di tutte queste cose, ma in una luce intima, familiare, introspettiva, indegna dei grandi cantori perchè troppo piccola e quotidiana. Ma la lingua della Morante dona dignità anche a materia così modesta, e così l'isola di Procida, poco lontana da Napoli, diventa una petrosa Itaca, dove si consuma il dramma più grande di tutti, vissuto ogni giorno e per questo disprezzato dagli aedi degli anni della Morante: il dramma della crescita, il brusco passaggio dall'infanzia e dai suoi sogni alle responsabilità e ai dolori della vita adulta. Le guerre ci sono, ma sono quelle che un giovanissimo, tenero Arturo combatte con sè stesso per scendere a patti con la realtà del mondo; ci sono gli eroi, se eroe si può chiamare un ragazzetto che passa le sue giornate a sognare di battaglie e viaggi avventurosi; ci sono gli amori impossibili, se tralasciamo che il loro oggetto è una piccola napoletana bruttarella e molto ignorante. La Morante si fa cantrice dei travagli del quotidiano, ma lo fa usando il linguaggio eroico di Omero e Virgilio.
"E tu non saprai la legge
ch'io, come tanti, imparo
- e a me ha spezzato il cuore:
fuori del limbo non v'è eliso."
La meravigliosa poesia che la Morante compone come dedica (e di cui io ho riportato solo l'ultima e, a mio parere più significativa, parte) ci dona fin dall'inizio una delle chiavi di lettura più importanti del romanzo: la crescita, appunto, l'abbandono del regno dell'infanzia e il crollo di tutti i sogni e le certezze infantili. Quelle di Arturo, in particolare, ruotavano attorno alla figura del padre.
Wilhelm Gerace, figlio di un italiano e di una tedesca, biondo e bellissimo agli occhi del figlio, con quel sorrisetto obliquo, gli occhi freddi e i suoi lunghissimi viaggi. Arturo lo ammanta, aiutato dalla penna sublime della Morante, di eroicità, immagina per lui avventure in luoghi selvaggi, onori e ricchezze. Stravede per lui, lo ammira come nessun'altro e il suo più grande desiderio è partire in viaggio con lui, a girare il mondo. Fuor di metafora si potrebbe parlare di come ogni bambino "mitizzi" i genitori e come, crescendo, si apprende una delle verità più dure: che sono umani e fallibili, come noi, e come noi sono deboli e imperfetti.
"Dunque, pare che alle anime viventi possano toccare due sorti: c'è chi nasce ape, e chi nasce rosa. Che fa lo sciame delle api, con la sua regina? Va, e ruba a tutte le rose un poco di miele, per portarselo nell'arnia, nelle sue stanzette. E la rosa? La rosa l'ha in sè stesso, il proprio miele: miele di rose, il più adorato, il più prezioso! La cosa più dolce che innamora essa l'ha già in sè stessa: non le serve cercarla altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, le rose, questi esseri divini! Le rose ignoranti non capiscono i propri misteri.
"La prima di tutte le rose è Dio.
"Fra le due: la rosa e l'ape, secondo me, la più fortunata è l'ape. E l'Ape Regina, poi, ha una fortuna sovrana! Io, per esempio, sono nato Ape Regina. E tu, Wilhelm? Secondo me, tu, Wilhelm mio, sei nato col destino più dolce e col destino più amaro:
"tu sei l'ape e sei la rosa."
Wilhelm rimane un mistero fino all'ultimo, la sua leggenda incrementata da racconti e fantasie. Ma quando il sogno svanirà, la realtà sarà ancora più dolorosa, per Arturo.
Uno dei temi di questo libro, oltre al passaggio tra infanzia e giovinezza, è quello, a me sempre molto caro, della solitudine. Arturo è orfano di madre, che è morta dandolo alla luce; il padre, sebbene adorato, non è fatto per l'amore. Arturo cresce da solo nella selvaggia Procida, accompagnato solo dalla fedele cagna Immacolatella. Se da bambino questa condizione gli pesava solo in modo inconscio e si tramutava nel desiderio potentissimo di avere una madre e nell'immaginarsela come spirito dell'isola, crescendo e cominciando a prendere consapevolezza di sè stesso e della realtà diventa un'angoscia profonda e continua, che il suo orgoglio gli impedisce di mostrare. E così desidera baciare e ricevere baci, perchè non ne ha mai dati o ricevuti; e abbraccia, di nascosto, i tronchi degli alberi, fingendo che siano persone. Il quattordicenne Arturo, moro e scuro, orgoglioso e fiero, indipendente e arrabbiato, alla ricerca di amore e amicizia, fino alla consapevolezza, inconscia, che la vita adulta è questo: solitudine e lontananza dall'altro, ma continua ricerca di vicinanza.
Questo libro mi è piaciuto moltissimo, mi ha toccata, mi ha commossa (si, la Morante ci riesce). La scena del confronto tra Arturo e il padre è di una potenza emotiva rara; Arturo entra sotto pelle, intenerisce il lato materno e atavico che è in ogni donna (come nel caso di Useppe ne La Storia), ma ci coinvolge soprattutto come simbolo di ciò che, in un modo o in un altro, abbiamo passato tutti: la fine dell'innocenza come fine delle illusioni infantili, Procida che, da Itaca, prende infine l'aspetto di un'Isola Che Non C'è preservata dal dolore. Quando il dolore - che ci trova ovunque - riesce a trovare perfino Arturo è il momento della rottura definitiva dell'illusione di poter essere felice e giovane per sempre.
Con L'isola di Arturo la Morante vinse il premio Strega. Un premio meritatissimo, a mio parere. Più in generale, trovo che la Morante sia una scrittrice incredibile e mi meraviglia - e mi amareggia - che non trovi più spazio nella nostra storia della letteratura. Ma noi, che siamo più intelligenti dei programmi scolastici in quanto capaci di pensare autonomamente, possiamo decidere di dare alla Morante l'onore che si merita: quello tributato a una grandissima scrittrice, che esplora, con uno stile ricco e sfaccettato, la nostra Storia e, soprattutto, la nostra fragilità
Virginia