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venerdì 29 settembre 2017

Recensione: Un incantevole aprile di Elizabeth von Arnim

Titolo: Un incantevole aprile
Autore: Elizabeth von Arnim
Traduttore: Luisa Balacco
Casa editrice: Bollati Boringhieri
Numero di pagine: 234
Formato: Cartaceo


Un discreto annuncio pubblicitario: «Per gli amanti del glicine e del sole...» apparso sul «Times» è il preludio a un mese rivelatore per quattro donne dalla personalità assai diversa. A picco su una baia della Riviera, tra giardini di calle, violacciocche e acacie, si staglia il castello medievale di San Salvatore. Alla ricerca disperata di sollievo dalle preoccupazioni quotidiane, Mrs Wilkins, Mrs Arbuthnot, Mrs Fisher e Lady Caroline Dester si lasciano allettare da quel paradiso terrestre. Cullate dalla primavera mediterranea, dai monti ammantati di violette e fiori dal dolce profumo, queste donne abbandonano a poco a poco i formalismi di società e scoprono un’armonia da tutte anelata e tuttavia mai conosciuta. Pubblicato nel 1922, e simile per vari aspetti a Il giardino di Elizabeth, questo romanzo è imbevuto di quella capacità descrittiva e di spensierata irriverenza che costituiscono il tratto tipico della scrittura di Elizabeth von Arnim.

Buon venerdì a tutti! Finalmente la settimana è finita ed è arrivato il weekend. Oggi vi parlo di un libro che ha prolungato per qualche giorno l'estate e la sensazione di vacanza dentro di me, facendomi inoltre conoscere una nuova autrice, che da tempo mi incuriosiva: Elizabeth von Arnim.




Questa autrice per molti anni sconosciuta, sta venendo ora riscoperta. Grazie all'interessantissimo blog Libri nella brughiera io già la conoscevo, ma solo un paio di mesi fa in libreria ho deciso di buttarmi e di acquistare uno dei suoi romanzi. Un incantevole aprile non è il suo titolo più noto, anzi. Leggiucchiando in giro, avevo visto dei pareri tiepidi su quest'ultimo lavoro della von Arnim (*mi correggo, è invece una sua opera molto nota ma l'ho scoperto solo in seguito alla recensione!), ma era l'unico suo libro sullo scaffale, quel giorno, e io sentivo che era quello il momento per comprare un suo lavoro, dopo anni di tiepida decisione. Preparata a un libro probabilmente non eclatante, qualche giorno fa mi sono accinta a leggerlo e mi sono trovata davanti una grandissima sorpresa.
L'aggettivo che, fin dalle primissime pagine, ho accostato a questo romanzo è "incantevole". E continua ad essere l'aggettivo più adatto. Ogni cosa, dall'ambientazione alle atmosfere di questa storia ha un'aura di magia, di fiaba senza tempo. Nel momento in cui i personaggi varcano la soglia di San Salvatore e giungono in un'Italia nel pieno della fioritura, qualcosa dentro di loro inizia a cambiare. Ma se Lotty - Mrs Wilkins - sembra assorbire fin da subito questa gioia intima e assoluta e si trasforma senza fatica, lo stesso non può dirsi per le altre tre donne, che lotteranno contro questa sensazione straniante.
Il libro della von Arnim è stato per me un'esperienza assolutamente nuova. La primissima cosa che mi ha colpita è la profonda comunione che si instaura fra i personaggi e il loro stato d'animo e la natura rigogliosa della Liguria. La scrittrice indulge spesso e volentieri in meravigliose descrizioni paesaggistiche, che non sono mai fini a sè stesse ma funzionali a una trama che è costruita sulla corrispondenza fra la bellezza e l'armonia della natura e l'anima umana.

"Lo splendore dell'aprile italiano era ai suoi piedi. Il sole la inondava di luce e il mare giaceva addormentato, muovendosi debolmente. Al di là della baia, anche le incantevoli montagne, dai colori squisitamente variegati, erano addormentate nella luce; e sotto la sua finestra, in fondo al pendio erboso costellato di fiori dal quale si ergevano le mura del castello, un grande cipresso si stagliava come un'enorme spada nera contro le tenui sfumature azzurre, violette e rosa delle montagne e del mare.
(...)
Era la felicità? Com'era povera e mediocre la vita di tutti i giorni. Ma cosa dire, come descriverla? Non stava più nella pelle, era come se fosse troppo piccola per contenere tutta quella felicità, come trovarsi in un bagno di luce. Era sorprendente provare questa beatitudine totale, perchè qui lei si trovava, e non faceva nè avrebbe fatto una sola cosa per gli altri, non doveva fare nulla che non avrebbe desiderato. A sentire le persone che era solita frequentare, avrebbe dovuto perlomeno avere dei dolori.
E invece neanche uno. C'era qualcosa di strano. Era incredibile che a casa fosse sempre così buona, così tremendamente buona, e ne avesse soltanto sofferenze; là si dedicava interamente agli altri ed era vittima di malesseri di ogni sorta: fitte, dolori e momenti di sconforto. E ora che si era spogliata di tutta la sua bontà e l'aveva lasciata alle spalle come un mucchio di vestiti inzuppati di pioggia, non provava che gioia. Denudata della bontà, godeva nel ritrovarsi nuda. Era svestita e raggiante."

Gli inserti descrittivi non sono mai troppo lunghi o prolissi. Al contrario, sono brevi ma incredibilmente suggestivi, incastonati con naturalezza nella narrazione. Una narrazione che ha i pregi di essere leggera e profonda a un tempo. Lo stile della von Arnim è aggraziato, ironico in vari momenti di comicità, eppure lascia nel lettore una sensazione di luce e di calore, come se la magia di San Salvatore si fosse insinuata nello stesso lettore, filtrata dalle pagine del libro. Mi sono ritrovata dunque inevitabilmente coinvolta e partecipe delle emozioni delle quattro protagoniste, che abbandonano il grigiore delle loro vite e riescono a vederle in una nuova ottica proprio a San Salvatore, immerse nella bellezza più assoluta e primitiva - quella della natura nel suo pieno fulgore - e nel silenzio. E così ognuna di loro medita, nella solitudine e nel sole, e si libera di quello strato di spessa menzogna che le avvolge. Ogni finzione cade e, come Lotty, si ritrovano nude davanti a sè stesse. Che cos'è il matrimonio di Rose se non un fallimento, e per colpa sua? Nella solitudine, quando non può annegare l'infelicità nel lavoro e nella religione, può infine capire che, oltre a tutte le incomprensioni e l'amarezza, l'unica cosa che vuole davvero è amare. Di tutti gli esseri presenti sulla Terra, dice lei, non gliene serve che uno. Uno da amare, coccolare, qualcuno con cui condividere anche la gioia, perchè essa è dimezzata nel momento in cui non c'è nessuno con cui condividerla.
L'anziana Mrs Fisher, che si trincera dietro a un passato di glorie ormai defunte, inizia a sentirsi di nuovo viva, nonostante tutta la resistenza opposta. Come una pianta, avverte nuove foglie germogliare dal suo tronco stanco.
Perfino lady Caroline cambia. Lontana dall'opprimente e fasulla società londinese, dagli uomini che cadono sempre ai suoi piedi e che non la lasciano mai in pace, può finalmente guardare dentro sè stessa, guardarsi indietro e con scoprire con amarezza e sgomento quanto vuota e squallida sia stata la sua vita fino a quel momento.

"Si strinse lo scialle intorno come per difendersi, per isolarsi. Non voleva diventare sentimentale, ma qui era difficile non esserlo; la notte meravigliosa si insinuava in ognuno portando con sè, che lo si volesse o no, sentimenti forti, sentimenti che non si potevano controllare, pensieri profondi sulla morte, il tempo, lo spreco; pensieri meravigliosi e devastanti, magnifici e tetri, insieme estasi e tormento, e un desiderio senza fine che spezzava il cuore. Si sentì piccola e incredibilmente sola. Si sentì nuda e indifesa. Istintivamente si strinse più stretta nello scialle. Con questa cosa di chiffon  cercava di proteggersi dall'eternità."

Il più grande pregio di questo libro è quello di unire una lettura più seria e profonda a una scrittura lieve e aggraziata, che permette di non annoiarsi mai.
Nonostante le mie basse aspettative, mi sono trovata davanti un romanzo meraviglioso e insolito, che mi ha colpita moltissimo e mi ha portata a impadronirmi subito di un altro libro di questa autrice, che sento già diverrà una delle mie preferite e che non vedo l'ora di approfondire.
Conoscete Elizabeth von Arnim? Avete mai letto uno dei suoi libri? Per parte mia, la annovero sicuramente come una grande scrittrice del Novecento e in rispetto di ciò la inserisco nel canone mio personale dei classici.

Virginia


domenica 15 gennaio 2017

CineRecensione#1 Ginger e Fred

Anno: 1985
Pellicola: Colore
Durata: 125 min
Regia: Federico Fellini

Alla stazione Termini scende Amelia, ex ballerina soprannominata "Ginger", vedova e proprietaria di una piccola industria. Deve apparire in televisione per ballare, trent'anni dopo, col suo vecchio partner Pippo, in arte "Fred". E' il periodo natalizio, c'è una grande confusione. Ginger sale su un pulmino dove incontra strani personaggi; arriva in un grande albergo dove tutto il personale è davanti alla tv, preso da una partita di calcio. Fred non è ancora arrivato, e Ginger scende in strada, dove viene circondata da un gruppo di motociclisti minacciosi. Torna in stanza, sente russare e scopre che è Fred, invecchiato, ridotto a malpartito, che ha accettato di partecipare allo show soltanto per soldi. I due vorrebbero almeno provare il loro vecchio numero, ma non ci riescono per il bailamme degli strani personaggi, ospiti, come loro, della trasmissione Ed ecco a voi. Alla fine ci riescono ma è un disastro. Solo i complimenti del presidente della tv li convincono a partecipare allo spettacolo: quando tocca a loro è un successo. Alla stazione, nel momento della partenza, vengono riconosciuti e firmano autografi. Poi, dopo che Fred ottiene un po' di soldi in prestito da Ginger, si separano. Lei parte. Le luci dei binari si spengono e resta solo la tv con i suoi martellanti spot pubblicitari.

Ciao a tutti e buona domenica! Non vi avevo promesso che oggi avrei dato il via a una nuova rubrica? Ebbene, eccomi qua! Il nome non è il massimo e l'idea non è delle più originali ma, al solito, l'ho declinata a modo mio. In questo primo appuntamento lasciate che vi descriva un po' cosa andrò a fare e con che cadenza.
Come potete facilmente intuire, con le mie CineRecensioni parleremo di film. Ma la cosa è un pelo più articolata. Tutti noi sappiamo che, come nel caso della letteratura, anche il cinema ha vari livelli di profondità. Ci sono i film più commerciali - che apprezzo moltissimo - ed altri un po' meno noti. Il cinema d'autore, così è definito. Io, per parte mia, amo vedere film e ho sempre sentito come una carenza il non dedicarmi a quest'aspetto del cinema. Ecco, in questa rubrica vorrei occuparmi di film un po' più autoriali, per vederli io per prima e con la speranza di dare anche a voi qualche suggerimento meno scontato.
Prima che partano le critiche, premetto di essere molto ignorante in materia. I film d'autore sono un territorio a me sconosciuto e l'idea è proprio quello di esplorarlo. Questo significa non solo che ho poca dimestichezza ed esperienza ma anche che proporrò registi che potrebbero non rientrare nella categoria. Quindi, se qualcuno più esperto di me volesse aiutarmi a crescere, sarebbe senz'altro i benvenuto, ma sempre tenendo conto che sono una novellina con tutti i crismi:)
Detto questo, ultimissime considerazioni. La rubrica verrà postata 2 volte al mese, rispettivamente l'1 e il 15, se tutto va come da programma. Avrei voluto proporvi un altro film (L'uovo del serpente di Ingmar Bergman), ma il DVD della biblioteca mi ha scaricata brutalmente a metà visione, lasciandomi anche piuttosto contrariata. Lo voglio assolutamente riprendere in futuro, ma per oggi mi "accontento" di Fellini, regista del quale, con mia somma vergogna, non avevo mai visto nulla.

Ho scelto questo film senza quasi saperne la trama. Fra i tanti della biblioteca questo ha colpito il mio sguardo e, un po' dubbiosa, ho deciso infine di portarlo a casa. Non sapevo cosa aspettarmi, ma sicuramente non mi sarei aspettata di gradirlo così tanto.
Nella Roma degli anni Ottanta due vecchie star, due vecchi amici, due vecchi amanti si rincontrano con la scusa di partecipare, dopo anni di assenza dal palco, a un programma televisivo che, per festeggiare il Natale, ha invitato tantissimi ospiti d'onore per far commuovere e far sentire un po' di nostalgia agli spettatori. Ed è così che le vite di Amelia e Pippo si tornano nuovamente a intrecciare, non più nel fulgore della giovinezza e del successo ma molti anni dopo, con i capelli grigi e gli acciacchi che iniziano a farsi sentire, dopo anni di lontananza e di una vita fatta di quotidianità e famiglia.
Mi hanno colpita vari aspetti di questo film. 

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Giulietta Masina (Ginger) e Marcello Mastroianni (Fred)

Innanzitutto l'ambientazione. Roma, la Città Eterna (come viene definita anche all'inizio del film), che è qui rappresentata come una vera e propria discarica a cielo aperto, nel grigiore degli alberghi di serie Z lontani dal centro. Non c'è nulla della grandiosità che si è soliti accostare a Roma in questa pellicola, nulla se non cemento, cartelloni pubblicitari e tanta, tanta spazzatura.
Il punto forte della vicenda sono i personaggi. Pippo e Amelia sono meravigliosi, teneri nel loro ritrovarsi e nel loro affrontare una realtà molto diversa da quella che ricordavano. Sono passati tanti anni e sono cambiati. La vita è andata avanti e, nel rivedersi, c'è quel senso di estraneità e familiarità al tempo stesso. Sono fragili, vulnerabili, fuori tempo in questa nuova realtà che Fellini delinea e che è squallida, volgare, vorace. 
Altrettanto incredibili sono  personaggi che ruotano loro intorno e che, più di una volta, fanno spalancare gli occhi allo spettatore: divertenti, patetici, ridicoli, umani. Da Ed ecco a voi c'è spazio per tutti, dal mafioso appena incarcerato a sedicenti medium. Fanno ridere ma, in fondo, si avverte un retrogusto di amarezza, perchè si pensa che, ancora adesso, la televisione offre lo stesso livello culturale. I "pecoroni teledipendenti", come li definisce Pippo, ci sono ancora adesso e sono quelli che vivono con l'apparecchio acceso e si bevono tutte le idiozie che ci propinano, che ascoltano morbosamente i giornalisti sviscerare in diretta le vite di altre persone che, spesso per motivi drammatici, vengono esposte al pubblico in trepidante attesa.
Il film di Fellini è, infatti, anche una critica, e piuttosto feroce, alla società italiana di quegli anni ed è impossibile non avvertire lo squallore di questa visione. Il sogno americano è morto, perfino in Italia. E i nostri protagonisti, che hanno vissuto negli anni dei soffusi bianchi e neri, non resta che una realtà colorata ma vuota. La pubblicità regna incontrastata, pubblicità volgare e sessista, e sembra che del progresso vertiginoso e degli anni dei varietà sia rimasto ben poco.
Tuttavia la pellicola non si racchiude in questa critica. Tanti sono i momenti buffi, di tenerezza; ancora di più quelli di nostalgia e malinconia. La nostalgia è parte integrante della trama, ne è fondamento e si respira nell'aria. Gli anni sono passati, la gioventù è finita e il progresso è andato avanti. Persi in questo nuovo mondo, Amelia e Pippo non possono che ritrovarsi davvero nel momento in cui vestono nuovamente, per l'ultima volta, i panni di Fred Astaire e Ginger Rogers, ma senza mai dimenticare il sorriso, quella a mezza bocca che dice: "Si, il tempo è passato, però noi siamo ancora qua".

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Virginia





martedì 25 ottobre 2016

Recensione: L'isola di Arturo di Elsa Morante

Titolo: L'isola di Arturo
Autore: Elsa Morante
Casa editrice: Einaudi
Numero di pagine: 379
Formato: Cartaceo
Il romanzo è un'esplorazione attenta della prima realtà verso le sorgenti non inquinate della vita. L'isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L'isola, dunque, è il punto di una scelta e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui, nella sua isola, l'eroe ragazzo-Arturo. È una scelta rischiosa perché non si dà uscita dall'isola senza la traversata del mare materno; come dire il passaggio dalla preistoria infantile verso la storia e la coscienza.

Questo è il secondo romanzo che leggo e recensisco di Elsa Morante (qui la mia recensione de La Storia) e ormai è irrimediabile: sono innamorata. Di questo libro ancor più del precedente, se possibile. Si, non ci credevo all'inizio, ma questo romanzo mi è piaciuto ancora di più del precedente, anche se mi ci è voluto un po' per entrare nella storia e metabolizzare le differenze.
Cominciamo da quelle.
Nella Storia una delle cose che mi avevano incantata più di tutti era stata la lingua, lo stile di scrittura della Morante. Se ne L'isola di Arturo abbiamo uno stesso stile ricco e stratificato, con l'utilizzo di termini alti e dialettali insieme (si vede che sto studiando letteratura italiana, eh?xD), sempre lo stesso amore per la Parola e tutte le sue inflessioni, abbiamo però anche una significativa differenza. Garboli - che ha curato il commento alla mia edizione - definisce questo romanzo "Una piccola, criptica Achilleide resuscitata" e, in effetti, questo romanzo sembra talvolta un piccolo, intimo poema epico e di questo filone ha lo stile, specie agli inizi. Questo comporta l'utilizzo di un registro "epico", appunto.
Ciò che cambia è l'argomento del poema. Non si narra di guerre (anche se l'ombra della Seconda Guerra Mondiale incombe), di eroi o amori impossibili.
O meglio, si narra di tutte queste cose, ma in una luce intima, familiare, introspettiva, indegna dei grandi cantori perchè troppo piccola e quotidiana. Ma la lingua della Morante dona dignità anche a materia così modesta, e così l'isola di Procida, poco lontana da Napoli, diventa una petrosa Itaca, dove si consuma il dramma più grande di tutti, vissuto ogni giorno e per questo disprezzato dagli aedi degli anni della Morante: il dramma della crescita, il brusco passaggio dall'infanzia e dai suoi sogni alle responsabilità e ai dolori della vita adulta. Le guerre ci sono, ma sono quelle che un giovanissimo, tenero Arturo combatte con sè stesso per scendere a patti con la realtà del mondo; ci sono gli eroi, se eroe si può chiamare un ragazzetto che passa le sue giornate a sognare di battaglie e viaggi avventurosi; ci sono gli amori impossibili, se tralasciamo che il loro oggetto è una piccola napoletana bruttarella e molto ignorante. La Morante si fa cantrice dei travagli del quotidiano, ma lo fa usando il linguaggio eroico di Omero e Virgilio.

   "E tu non saprai la legge
ch'io, come tanti, imparo
- e a me ha spezzato il cuore:

fuori del limbo non v'è eliso."

La meravigliosa poesia che la Morante compone come dedica (e di cui io ho riportato solo l'ultima e, a mio parere più significativa, parte) ci dona fin dall'inizio una delle chiavi di lettura più importanti del romanzo: la crescita, appunto, l'abbandono del regno dell'infanzia e il crollo di tutti i sogni e le certezze infantili. Quelle di Arturo, in particolare, ruotavano attorno alla figura del padre.
Wilhelm Gerace, figlio di un italiano e di una tedesca, biondo e bellissimo agli occhi del figlio, con quel sorrisetto obliquo, gli occhi freddi e i suoi lunghissimi viaggi. Arturo lo ammanta, aiutato dalla penna sublime della Morante, di eroicità, immagina per lui avventure in luoghi selvaggi, onori e ricchezze. Stravede per lui, lo ammira come nessun'altro e il suo più grande desiderio è partire in viaggio con lui, a girare il mondo. Fuor di metafora si potrebbe parlare di come ogni bambino "mitizzi" i genitori e come, crescendo, si apprende una delle verità più dure: che sono umani e fallibili, come noi, e come noi sono deboli e imperfetti.

"Dunque, pare che alle anime viventi possano toccare due sorti: c'è chi nasce ape, e chi nasce rosa. Che fa lo sciame delle api, con la sua regina? Va, e ruba a tutte le rose un poco di miele, per portarselo nell'arnia, nelle sue stanzette. E la rosa? La rosa l'ha in sè stesso, il proprio miele: miele di rose, il più adorato, il più prezioso! La cosa più dolce che innamora essa l'ha già in sè stessa: non le serve cercarla altrove. Ma qualche volta sospirano di solitudine, le rose, questi esseri divini! Le rose ignoranti non capiscono i propri misteri.
"La prima di tutte le rose è Dio.
"Fra le due: la rosa e l'ape, secondo me, la più fortunata è l'ape. E l'Ape Regina, poi, ha una fortuna sovrana! Io, per esempio, sono nato Ape Regina. E tu, Wilhelm? Secondo me, tu, Wilhelm mio, sei nato col destino più dolce e col destino più amaro:
"tu sei l'ape e sei la rosa."

Wilhelm rimane un mistero fino all'ultimo, la sua leggenda incrementata da racconti e fantasie. Ma quando il sogno svanirà, la realtà sarà ancora più dolorosa, per Arturo.
Uno dei temi di questo libro, oltre al passaggio tra infanzia e giovinezza, è quello, a me sempre molto caro, della solitudine. Arturo è orfano di madre, che è morta dandolo alla luce; il padre, sebbene adorato, non è fatto per l'amore. Arturo cresce da solo nella selvaggia Procida, accompagnato solo dalla fedele cagna Immacolatella. Se da bambino questa condizione gli pesava solo in modo inconscio e si tramutava nel desiderio potentissimo di avere una madre e nell'immaginarsela come spirito dell'isola, crescendo e cominciando a prendere consapevolezza di sè stesso e della realtà diventa un'angoscia profonda e continua, che il suo orgoglio gli impedisce di mostrare. E così desidera baciare e ricevere baci, perchè non ne ha mai dati o ricevuti; e abbraccia, di nascosto, i tronchi degli alberi, fingendo che siano persone. Il quattordicenne Arturo, moro e scuro, orgoglioso e fiero, indipendente e arrabbiato, alla ricerca di amore e amicizia, fino alla consapevolezza, inconscia, che la vita adulta è questo: solitudine e lontananza dall'altro, ma continua ricerca di vicinanza.
Questo libro mi è piaciuto moltissimo, mi ha toccata, mi ha commossa (si, la Morante ci riesce). La scena del confronto tra Arturo e il padre è di una potenza emotiva rara; Arturo entra sotto pelle, intenerisce il lato materno e atavico che è in ogni donna (come nel caso di Useppe ne La Storia), ma ci coinvolge soprattutto come simbolo di ciò che, in un modo o in un altro, abbiamo passato tutti: la fine dell'innocenza come fine delle illusioni infantili, Procida che, da Itaca, prende infine l'aspetto di un'Isola Che Non C'è preservata dal dolore. Quando il dolore - che ci trova ovunque - riesce a trovare perfino Arturo è il momento della rottura definitiva dell'illusione di poter essere felice e giovane per sempre.
Con L'isola di Arturo la Morante vinse il premio Strega. Un premio meritatissimo, a mio parere. Più in generale, trovo che la Morante sia una scrittrice incredibile e mi meraviglia - e mi amareggia - che non trovi più spazio nella nostra storia della letteratura. Ma noi, che siamo più intelligenti dei programmi scolastici in quanto capaci di pensare autonomamente, possiamo decidere di dare alla Morante l'onore che si merita: quello tributato a una grandissima scrittrice, che esplora, con uno stile ricco e sfaccettato, la nostra Storia e, soprattutto, la nostra fragilità

Virginia