venerdì 29 settembre 2017

Recensione: Un incantevole aprile di Elizabeth von Arnim

Titolo: Un incantevole aprile
Autore: Elizabeth von Arnim
Traduttore: Luisa Balacco
Casa editrice: Bollati Boringhieri
Numero di pagine: 234
Formato: Cartaceo


Un discreto annuncio pubblicitario: «Per gli amanti del glicine e del sole...» apparso sul «Times» è il preludio a un mese rivelatore per quattro donne dalla personalità assai diversa. A picco su una baia della Riviera, tra giardini di calle, violacciocche e acacie, si staglia il castello medievale di San Salvatore. Alla ricerca disperata di sollievo dalle preoccupazioni quotidiane, Mrs Wilkins, Mrs Arbuthnot, Mrs Fisher e Lady Caroline Dester si lasciano allettare da quel paradiso terrestre. Cullate dalla primavera mediterranea, dai monti ammantati di violette e fiori dal dolce profumo, queste donne abbandonano a poco a poco i formalismi di società e scoprono un’armonia da tutte anelata e tuttavia mai conosciuta. Pubblicato nel 1922, e simile per vari aspetti a Il giardino di Elizabeth, questo romanzo è imbevuto di quella capacità descrittiva e di spensierata irriverenza che costituiscono il tratto tipico della scrittura di Elizabeth von Arnim.

Buon venerdì a tutti! Finalmente la settimana è finita ed è arrivato il weekend. Oggi vi parlo di un libro che ha prolungato per qualche giorno l'estate e la sensazione di vacanza dentro di me, facendomi inoltre conoscere una nuova autrice, che da tempo mi incuriosiva: Elizabeth von Arnim.




Questa autrice per molti anni sconosciuta, sta venendo ora riscoperta. Grazie all'interessantissimo blog Libri nella brughiera io già la conoscevo, ma solo un paio di mesi fa in libreria ho deciso di buttarmi e di acquistare uno dei suoi romanzi. Un incantevole aprile non è il suo titolo più noto, anzi. Leggiucchiando in giro, avevo visto dei pareri tiepidi su quest'ultimo lavoro della von Arnim (*mi correggo, è invece una sua opera molto nota ma l'ho scoperto solo in seguito alla recensione!), ma era l'unico suo libro sullo scaffale, quel giorno, e io sentivo che era quello il momento per comprare un suo lavoro, dopo anni di tiepida decisione. Preparata a un libro probabilmente non eclatante, qualche giorno fa mi sono accinta a leggerlo e mi sono trovata davanti una grandissima sorpresa.
L'aggettivo che, fin dalle primissime pagine, ho accostato a questo romanzo è "incantevole". E continua ad essere l'aggettivo più adatto. Ogni cosa, dall'ambientazione alle atmosfere di questa storia ha un'aura di magia, di fiaba senza tempo. Nel momento in cui i personaggi varcano la soglia di San Salvatore e giungono in un'Italia nel pieno della fioritura, qualcosa dentro di loro inizia a cambiare. Ma se Lotty - Mrs Wilkins - sembra assorbire fin da subito questa gioia intima e assoluta e si trasforma senza fatica, lo stesso non può dirsi per le altre tre donne, che lotteranno contro questa sensazione straniante.
Il libro della von Arnim è stato per me un'esperienza assolutamente nuova. La primissima cosa che mi ha colpita è la profonda comunione che si instaura fra i personaggi e il loro stato d'animo e la natura rigogliosa della Liguria. La scrittrice indulge spesso e volentieri in meravigliose descrizioni paesaggistiche, che non sono mai fini a sè stesse ma funzionali a una trama che è costruita sulla corrispondenza fra la bellezza e l'armonia della natura e l'anima umana.

"Lo splendore dell'aprile italiano era ai suoi piedi. Il sole la inondava di luce e il mare giaceva addormentato, muovendosi debolmente. Al di là della baia, anche le incantevoli montagne, dai colori squisitamente variegati, erano addormentate nella luce; e sotto la sua finestra, in fondo al pendio erboso costellato di fiori dal quale si ergevano le mura del castello, un grande cipresso si stagliava come un'enorme spada nera contro le tenui sfumature azzurre, violette e rosa delle montagne e del mare.
(...)
Era la felicità? Com'era povera e mediocre la vita di tutti i giorni. Ma cosa dire, come descriverla? Non stava più nella pelle, era come se fosse troppo piccola per contenere tutta quella felicità, come trovarsi in un bagno di luce. Era sorprendente provare questa beatitudine totale, perchè qui lei si trovava, e non faceva nè avrebbe fatto una sola cosa per gli altri, non doveva fare nulla che non avrebbe desiderato. A sentire le persone che era solita frequentare, avrebbe dovuto perlomeno avere dei dolori.
E invece neanche uno. C'era qualcosa di strano. Era incredibile che a casa fosse sempre così buona, così tremendamente buona, e ne avesse soltanto sofferenze; là si dedicava interamente agli altri ed era vittima di malesseri di ogni sorta: fitte, dolori e momenti di sconforto. E ora che si era spogliata di tutta la sua bontà e l'aveva lasciata alle spalle come un mucchio di vestiti inzuppati di pioggia, non provava che gioia. Denudata della bontà, godeva nel ritrovarsi nuda. Era svestita e raggiante."

Gli inserti descrittivi non sono mai troppo lunghi o prolissi. Al contrario, sono brevi ma incredibilmente suggestivi, incastonati con naturalezza nella narrazione. Una narrazione che ha i pregi di essere leggera e profonda a un tempo. Lo stile della von Arnim è aggraziato, ironico in vari momenti di comicità, eppure lascia nel lettore una sensazione di luce e di calore, come se la magia di San Salvatore si fosse insinuata nello stesso lettore, filtrata dalle pagine del libro. Mi sono ritrovata dunque inevitabilmente coinvolta e partecipe delle emozioni delle quattro protagoniste, che abbandonano il grigiore delle loro vite e riescono a vederle in una nuova ottica proprio a San Salvatore, immerse nella bellezza più assoluta e primitiva - quella della natura nel suo pieno fulgore - e nel silenzio. E così ognuna di loro medita, nella solitudine e nel sole, e si libera di quello strato di spessa menzogna che le avvolge. Ogni finzione cade e, come Lotty, si ritrovano nude davanti a sè stesse. Che cos'è il matrimonio di Rose se non un fallimento, e per colpa sua? Nella solitudine, quando non può annegare l'infelicità nel lavoro e nella religione, può infine capire che, oltre a tutte le incomprensioni e l'amarezza, l'unica cosa che vuole davvero è amare. Di tutti gli esseri presenti sulla Terra, dice lei, non gliene serve che uno. Uno da amare, coccolare, qualcuno con cui condividere anche la gioia, perchè essa è dimezzata nel momento in cui non c'è nessuno con cui condividerla.
L'anziana Mrs Fisher, che si trincera dietro a un passato di glorie ormai defunte, inizia a sentirsi di nuovo viva, nonostante tutta la resistenza opposta. Come una pianta, avverte nuove foglie germogliare dal suo tronco stanco.
Perfino lady Caroline cambia. Lontana dall'opprimente e fasulla società londinese, dagli uomini che cadono sempre ai suoi piedi e che non la lasciano mai in pace, può finalmente guardare dentro sè stessa, guardarsi indietro e con scoprire con amarezza e sgomento quanto vuota e squallida sia stata la sua vita fino a quel momento.

"Si strinse lo scialle intorno come per difendersi, per isolarsi. Non voleva diventare sentimentale, ma qui era difficile non esserlo; la notte meravigliosa si insinuava in ognuno portando con sè, che lo si volesse o no, sentimenti forti, sentimenti che non si potevano controllare, pensieri profondi sulla morte, il tempo, lo spreco; pensieri meravigliosi e devastanti, magnifici e tetri, insieme estasi e tormento, e un desiderio senza fine che spezzava il cuore. Si sentì piccola e incredibilmente sola. Si sentì nuda e indifesa. Istintivamente si strinse più stretta nello scialle. Con questa cosa di chiffon  cercava di proteggersi dall'eternità."

Il più grande pregio di questo libro è quello di unire una lettura più seria e profonda a una scrittura lieve e aggraziata, che permette di non annoiarsi mai.
Nonostante le mie basse aspettative, mi sono trovata davanti un romanzo meraviglioso e insolito, che mi ha colpita moltissimo e mi ha portata a impadronirmi subito di un altro libro di questa autrice, che sento già diverrà una delle mie preferite e che non vedo l'ora di approfondire.
Conoscete Elizabeth von Arnim? Avete mai letto uno dei suoi libri? Per parte mia, la annovero sicuramente come una grande scrittrice del Novecento e in rispetto di ciò la inserisco nel canone mio personale dei classici.

Virginia


venerdì 22 settembre 2017

Recensione: Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson

Titolo: Io non mi chiamo Miriam
Autore: Majgull Axelsson
Traduttore: Laura Cangemi
Casa editrice: Iperborea
Numero di pagine: 539
Formato: Cartaceo

"Io non mi chiamo Miriam", dice di colpo un'elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant'anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l'Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d'Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l'"altro" interrogandosi sull'identità - etnica, culturale, ma soprattutto personale - e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all'erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno.



Buon venerdì lettori:) Oggi finalmente ritorno con la recensione di un libro! Eh si, il mio ritmo di lettura in questi mesi è calato, complici anche i tanti nuovi interessi che sono nati in questo periodo, ma io tengo duro, anche solo per trovare piccoli gioielli come il romanzo che vi recensisco oggi.
Iperborea è sicuramente una casa editrice cui prestare attenzione. Qui in Italia le librerie pullulano di gialli nordici (in particolare svedesi) ed è facile dimenticarsi che i Paesi nordici hanno una loro letteratura e che spesso è di tutto rispetto. Come vi ho già detto anche ai tempi di Bjorn Larsson (qui la mia recensione), queste edizioni sono di assoluto pregio. Il formato è assolutamente innovativo - e intrigante, a mio parere - e troviamo un breve saggio a fine libro che ci permette di inquadrare meglio quanto letto.
Io non mi chiamo Miriam affronta coraggiosamente un tema cui siamo ormai avvezzi: la Seconda Guerra Mondiale e i campi di sterminio. Lo fa, però, in maniera diversa. Protagonista è l'anziana Miriam che, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, non riesce più a nascondere dentro di sè i ricordi legati agli anni imprigionata ad Auschwitz prima e a Ravensbruck poi. Soprattutto, non riesce più a negare, anche solo a sè stessa, una verità sepolta dentro di lei da fin troppo tempo: il suo nome non è Miriam.
Il libro non è che lo svelamento, nell'intrecciarsi fra presente e passato, della verità su Miriam - o meglio, Malika. Una verità taciuta dalla protagonista per più di cinquant'anni. Ma come spiegare ai propri cari e amici di aver finto fin dall'inizio di essere un'ebrea quando invece è una zingara?
Il romanzo affronta varie tematiche.
Quella più evidente è quella della vita nei campi di concentramento, raccontati qui con assoluta crudezza. La disperazione che prima imbruttisce e poi uccide - anche solo moralmente - i prigionieri (Se questo è un uomo, ci chiede infatti Primo Levi); la bassezza infinita e la mancanza di umanità dei carcerieri, la cattiveria dei detenuti verso altri nella stessa situazioni. Sopravvivere vuol dire sacrificare l'altro al proprio posto e uno dei pochi modi per mantenere un barlume di umanità è proprio quello di svincolare da questo ragionamento, una cosa che la giovanissima e stremata Miriam imparerà da Else, che ci mostra come l'amore possa trovarci ovunque.
Uno dei temi cardine del romanzo è, ovviamente, quello dell'identità. Nel caso di Miriam/Malika, l'identità personale si fonde con quella culturale. Quando da Malika diventa Miriam lo fa solo per contingenza, ma il momento in cui decide di continuare con questa menzogna o addirittura di rinnegare le sue radici, è come se voltasse le spalle a tutti gli altri zingari. Un senso di colpa che la tormenta perfino a 85 anni; una debolezza che non è mai riuscita a perdonarsi. Ma a parte le questioni etniche, chi è Miriam? Malika è la ragazzina ormai perduta fin troppi anni fa, è una parte di lei ma non è più lei; Miriam è la nuova identità che ha trafugato e che ha indossato per quasi tutta la sua vita, eppure non le appartiene completamente. La sua stessa vita sembra spaccata in due: il campo di concentramento prima e la Svezia poi. Come far collimare il fantasma incattivito che a stento si reggeva in piedi in Germania con la perfetta casalinga svedese, la cui vita fatta di pellicce e borsette sembra perfetta? Ma la realtà - quella vera e oscura - è appena dietro l'angolo, negli incubi che la perseguitano la notte e per quel fondo di odio - verso tutto e tutti - che talvolta riemerge. Ma va ricacciato in fondo, sempre più in fondo, perchè in questa nuova vita luminosa non c'è posto per le ombre di un passato che nessuno sembra davvero interessato a ricordare - Dimentica e sopravvivi, si ripete instancabilmente la stessa Miriam, seguendo la lezione di un padre ormai sepolto negli abissi della memoria. Dimenticare diventa essenziale. Ma ciò che è avvenuto è troppo terribile per poter essere cancellato, e a 85 anni Miriam non riesce più a stare zitta. Di fondo, però, rimane la domanda: chi è davvero lei?
La feroce determinazione con cui Miriam cerca di cancellare Malika e il suo passato è dolorosa. Miriam, ebrea di buona famiglia, diventa il suo migliore travestimento. Chi, infatti, vorrebbe mai aiutare una rom? Nel corso della sua permanenza nei campi e perfino in Svezia, innumerevoli volte ha visto cosa succederebbe se la verità venisse fuori: disprezzo, sfiducia, miseria. Per sopravvivere, Malika dimentica perfino sè stessa e diventa Miriam.
Uno dei pezzi più pesanti da leggere (io piangevo e non mi capita quasi mai - ma i bambini mi fanno questo effetto) è la storia di Didi, il fratellino di Malika, il bambino che ha cresciuto al posto della madre, morta da anni. La sua morte crudele è uno spettro che aleggia per tutto il romanzo ma solo verso la fine del suo racconto Miriam troverà la forza di aprire anche quella porta, l'ultima e la più estrema, il dolore più profondo che non è mai riuscita a cancellare davvero. In questo caso, l'autrice coinvolge il dottor Mengele, tristemente noto per gli esperimenti che conduceva sui prigionieri dei campi di concentramento.
Quello che mi è veramente piaciuto di questo romanzo è che affronta un'altra importante tematica, che forse spesso finisce per essere dimenticata: cosa accadde ai sopravvissuti? Una volta liberati, cos'è accaduto a questi spettri? Com'è possibile tornare umani dopo tutto l'orrore?
Non si ritorna mai del tutto, ecco come. Si lotta per seppellire ogni cosa, perchè com'è possibile vivere dopo aver visto quali picchi di crudeltà e bassezza può raggiungere l'uomo? Miriam cancella sè stessa, rinnega il suo passato, la sua lingua e il suo popolo. Di più, cerca la sicurezza data dall'invisibilità e dall'omologazione. Non vuole spiccare o essere diversa, ma solo nascondersi. E per farlo è pronta a tutto, perfino ad adattarsi alla volontà di benefattori che troppo spesso sembrano dimenticarsi di lei e finiscono per vederla come un'opera di bene, un monumento a sè stessi. Così ho visto Hanna e Olof. Nonostante il loro indiscutibile buon cuore, quello che vogliono è che Miriam rientri perfettamente nei loro parametri, senza sbavature. Miriam se ne rende subito conto ed è ben felice di accontentarli. E alla fine del romanzo non riusciamo a capire quanta effettiva felicità ci sia stata nella vita di Miriam, quella apparentemente perfetta condotta in Svezia.
Questo libro mi è piaciuto parecchio ma ha, a mio parere, qualche sbavatura. Ciò che mi è piaciuta di meno è la cornice, ovvero la Miriam di 85 anni che rivela a sua nipote Camilla la sua vera storia. Non mi è piaciuta questa Miriam, così come non ho amato la sua famiglia assolutamente disfunzionale - e non in senso simpatico. L'autrice mette parecchia carne al fuoco, troppa se si tiene conto del fatto che queste tematiche non verranno mai approfondite ma lasciate là, semplice orpello per una narrazione che si concentra su ben altro. Così come non ho apprezzato, sono sincera, ilo tentativo di sconvolgere il lettore con qualche artificio narrativo. Il materiale è già pesante di suo senza scadere nel teatrale, secondo me - ma questo è un atteggiamento che ho riscontrato in pochi pezzi.
Quindi, per concludere, un libro che mi è piaciuto molto e che mi ha addirittura fatta piangere. Ve lo consiglio assolutamente, ma solo se non temete le storie dure e, purtroppo, fin troppo vere.
Per parte mia non vedo l'ora di leggere un altro titolo Iperborea, una CE che ha davvero un catalogo valido e degno d'attenzione!

Virginia

martedì 19 settembre 2017

CineRecensione#12: You are beautiful

Anno: 2009
Episodi: 16
Categoria: KDrama

Gemma è una suora in procinto di prendere i voti che si ritroverà a doversi spacciare per il proprio fratello gemello (temporaneamente bloccato in America) e a prendere il suo posto come membro di una famosissima boy band: gli A. N. Jell.



Buongiorno a tutti e buon martedì! Come vi avevo preannunciato nell'ultimo post, oggi si torna al lavoro con una CineRecensione, quello che sta diventando uno dei miei post preferiti perchè sono davvero poche le persone con cui posso parlare di drama e una delle comodità di avere un proprio blog è che... Be', posso parlare di quello che voglio. Se poi qualcuno è interessato a leggerlo è però un altro paio di manichexD
Ma a parte questo, oggi vi parlo di uno di quei drama che è considerato "storico", nel senso che non puoi vedere kdrama e non vedere anche un questo, un giorno o l'altro. Per parte mia, lo trovo anche perfetto per iniziare perchè è un perfetto mix di tutto e, sopra ogni cosa, ho notato che è uno di quei drama che mette d'accordo un po' tutti. A differenza di altre serie più controverse (Boys over flowers, un nome su tutti, che è amato e odiato con pari fervore), You're beautiful piace davvero a quasi tutti e questo, secondo me, perchè riesce a mettere in scena risate, lacrime, una bellissima storia d'amore e una ost che non ti scordi più.
Ma eccovi una recensione un po' più approfondita!

Uno dei motivi per cui ho amato tanto questo drama è per l'attrice protagonista, Park Shin Hye. Conosciuta con The Heirs, nonostante non avessi amato il personaggio avevo comunque apprezzato l'interpretazione dell'attrice e,vista la sua grandissima fama in patria, ero davvero curiosa di vederla in azione in qualche altro ruolo.
Dal primo momento in cui l'ho vista in You're beautiful, ho capito di avere davanti una ragazza capace di fare il suo lavoro. Se non avessi saputo di avere davanti la stessa persona, non ci avrei creduto! Qui Park Shin Hye non cambia solo l'aspetto fisico, ma si cala talmente bene nel ruolo da apparire davvero un'altra persona. Se la protagonista di The Heirs, Eun Sang, è infatti una ragazza cinica e dura, Mi Nam/Mi Nyu è invece ingenua e un po' tonta e lo trasmette in maniera lampante fin dalle buffissime espressioni facciali. 
Lo stesso personaggio mi è piaciuto molto. Nonostante Mi Nam sia a volte davvero ingenua ai limiti del paranormale, trasmette anche molta tenerezza. Non fa altro che cacciarsi in un guaio dopo l'altro e il suo amore per Tae Kyung è talmente puro e disinteressato che non si può davvero non parteggiare con lei. E così dopo le risate - e quante risate! - dei primi episodi, con il proseguire della storia e l'emergere di sentimenti inaspettati il tono si fa più serio.
Vi ho nominato Tae Kyung. Ora ve lo mostro: eccolo qui a lato, con la sua tipica espressione contrariata. Non so voi ma io sono morta dalle risate ogni volta che la tirava fuori - ed è successo spesso, poco da dire. L'interpretazione dell'attore mi è piaciuta molto, ho trovato che riuscisse davvero a creare un personaggio. Tae Kyung è indisponente, spesso antipatico e pieno di allergie. Per questo l'ho amato. Per questo e per la sua straordinaria intensità, che ovviamente in foto non traspare. Questo attore, che vedevo amato da tutte, davvero non mi ha detto nulla (anzi, l'ho sempre trovato bruttarello) finchè non l'ho visto recitare. Ecco, lì ho capito perchè tutte le spettatrici lo amino: perchè è intenso. In molte scene mi è quasi sembrato di avvertire fisicamente il suo sguardo su di me. La sua capacità poi di alternare momenti incredibilmente comici ad altri profondi è ciò che mi ha colpita e affondata del tutto. E basta, dopo Lee Min Ho (*-*) ho trovato la mia seconda crush coreana: Jang Geun Suk. Sono molto curiosa di scoprire se questa intensità pazzesca è solo frutto di una grande chimica con Park Shin Hye o se è una sua specifica caratteristica.


I due protagonisti non hanno nulla in comune. Lui la odia già per partito preso: il suo ingresso nel gruppo è un'imposizione, perchè Mi Nam pare abbia una voce più adatta di lui a cantare la nuova canzone degli A. N. Jell. Da parte sua, Mi Nam è terrorizzata: passa dall'essere sul punto di prendere i voti a fingere di essere il suo fratello gemello, membro di una boy band! Con la sua goffaggine, poi, non fa che combinare un guaio dopo l'altro e questo basta a far perdere definitivamente la pazienza a Tae Kyung.
La relazione che viene a svilupparsi fra i due è meravigliosa. Mentre li guardavo, avevo costantemente gli occhi a cuoricino, mi sono davvero sentita coinvolta da questa coppia così imperfetta. Imperfetta perchè lo sono entrambi e incappano in un sacco di incomprensioni. Ma ciò che mi ha davvero colpito è che, nonostante dei due sembri Tae Kyung il più forte, in realtà è Mi Nam la roccia della coppia, lei che si sacrifica sempre per lui e che si prende letteralmente in carico la sua felicità, nonostante una situazione che, procedendo con le puntate, diventa sempre più ingarbugliata, anche a causa della dolorosa e complicata situazione familiare di Tae Kyung (non vi dico altro, per non fare spoiler).


A dare un valore aggiunto al drama sono poi gli altri due membri della band: da sinistra a destra, Shin Woo e Jeremy. Entrambi instaurano una propria relazione con Mi Nam, che ha dato luogo a varie scene divertentissime e ad altre più tristi. Ammetto di non aver amato troppo l'attore che ha interpretato Shin Woo: l'ho trovato freddo e poco espressivo, ma il personaggio mi ha sicuramente conquistata e lo stesso si può dire per molte altre spettatrici. In effetti, il successo avuto dall'accoppiata Mi Nam/Shin Woo è stato talmente grande che gli attori sono stati coinvolti in un altro drama, Heartstrings, e ammetto di essere piuttosto curiosa di vederlo, anche soltanto per poter dare un'altra possibilità all'attore.
Questo drama, a mio parere, ha un solo grande difetto: il finale. 
L'ho detestato.
Chiariamoci, i drama coreani hanno spesso e volentieri dei finali poco efficaci, ma di solito riesco a passarci sopra piuttosto tranquillamente. In questo caso NO, anche perchè con "finale" intendo poi le ultime puntate, quando gli avvenimenti hanno preso una piega che mi ha molto contrariata e che, a mio parere, è stata tirata fuori per tirare la storia ulteriormente per le lunghe, arrivando addirittura a snaturare il personaggio di Tae Kyung, che io ho amato così tanto. Dopo attenta riflessione, ho deciso di rimuovere dalla mia mente le ultime puntate e di conservare il ricordo di un drama bellissimo che mi ha fatta ridere e commuovere e a cui ripenso ancora adesso, a più di una settimana dalla conclusione.
Infine, non posso recensire un drama senza riportarvi almeno l'ost più significativa (se ce ne sono state, ovviamente!). Questo drama in particolare è famoso anche per la sua ost, che ritorna in tutta la vicenda e che altro non è che la canzone scritta da Tae Kyung e assegnata poi a Mi Nam.
Ve la lascio qua sotto, perchè è bellissima e la sto ascoltando a ripetizione da una settimana*-*




Vi metto anche questo video che ho trovato su youtube e mi piace un sacco*-*



E per oggi vi saluto:)

Virginia









giovedì 14 settembre 2017

Oggi parliamo di... MANGA#1: Questo non è il mio corpo di Moyoco Anno

Titolo: Questo non è il mio corpo
Autore: Moyoco Anno
Casa editrice: Kappa Edizioni
Serie? No, autoconclusivo

Noko Hanazawa è una giovane "office lady" con un'ossessione per il cibo. Di fronte a qualsiasi problema, dalle angherie dei superiori alle offese dei ragazzi, Noko reagisce mangiando compulsivamente, fino a dimenticare ogni cosa. Per Saito, il suo ragazzo, il fatto che Noko sia sovrappeso non sembra un problema. Un giorno però, Noko scopre che Saito ha una relazione con una collega di ufficio, e decide di dimagrire per riconquistarlo, ma le cose sono molto diverse da come sembrano. Una storia d'amore densa, insinuante e a tratti sgradevole nello sua crudezza, ma venata d'ironia. Il racconto della lotta quotidiana tra il bisogno psicologico di nutrimento e il desiderio di essere magri fino a scomparire.

Buongiorno a tutti! Oggi torno sul blog con una novità. Dopo anni in cui non mi sono mai approcciata al genere, finalmente ho letto un manga.
Per prima cosa, qualche precisazione. 
Non ho mai letto manga non per pregiudizio ma per questioni di tempo e di soldi. Di tempo perchè ero fin troppo assorbita dai libri e dalla vita quotidiana per farci entrare pure i manga; di soldi perchè ogni centesimo era sacrificato in tributo all'altare della lettura e pensare di spendere anche solo 5 euro (perchè in genere sono questi i prezzi) per un'opera che avrei letto in 30 minuti al massimo mi disturbava.
Ma tant'è. Ora che la mia giornata è DECISAMENTE più piena (drama e serie tv*-*), ho cominciato a sentire il bisogno di espandere i miei orizzonti artistici. E fu così che mia sorella, dopo mesi a sentirmi blaterare, ha deciso di tagliare la testa al toro e di regalarmelo lei un manga per il mio compleanno. Tenete conto che lei è inesperta quanto me in questo campo, quindi il manga che mi ha poi preso è stato scelto sostanzialmente a naso, ispirata da recensioni e trama. E, ovviamente, seguendo l'unico dogma: doveva essere autoconclusivo.
Mi sono dunque trovata questo fumetto tra le mani e il giorno dopo l'ho letto.
Eccovi dunque la mia recensione, in quella che spero sarà una nuova rubrica - magari non attivissima ma nemmeno dimenticata come altre (VERGOGNA) - sul blog.


Questo che potete vedere è il tratto. Io non sono esperta, ma credo che si distanzi discretamente dallo stile canonico degli shoujo (*manga di genere romantico e indirizzati a un pubblico essenzialmente femminile). Se dovessi inquadrare questo manga in un genere letterario (non lo ripeterò mai abbastanza, sono ignorante in questo campo!), sarebbe la letteratura moderna. 
Quando ho iniziato a leggere, credevo che il tema trattato sarebbe stato quello dell'anoressia. Leggendo, però, mi ci è voluto poco per capire che la storia che mi si stava delineando davanti agli occhi era molto più torbida e contorta di quanto avessi immaginato.
La protagonista, Noko, mangia. Quando sta male, quando l'angoscia, la solitudine e il disprezzo di sè la travolgono, mangia. Mangiando è come se ricacciasse sempre più in fondo al suo stomaco tutte le emozioni negative; come se potesse morderle, triturarle, fagocitarle. Farle sparire. Il grasso che le ricopre il corpo è una barriera. Come dice lei stessa, è come se ne fosse intrappolata; allo stesso tempo, è come se la proteggesse da tutto ciò che non va nella sua vita. Ed è tanto. A partire dal lavoro. Noko lavora in un ufficio e, a causa del suo aspetto non convenzionale e "sgradevole", è il capro espiatorio del capo e di tutti i suoi colleghi; il fidanzato storico - sono assieme da 8 anni - la maltratta e la fa sentire sempre inadeguata, intrappolandola in un ricatto emotivo che sembra senza via di uscita: il disprezzo contro la solitudine. Perchè Noko non ha neanche amici. O meglio, gli unici contatti che ha sono le colleghe di lavoro: magre, belle, raffinate. Per loro Noko è più uno svago, un animaletto: talvolta da accettare, più spesso da deridere. E Noko subisce tutto. L'unica vera spia di malessere è il suo compulsivo attaccamento al cibo, che le porta il disprezzo e il disgusto dei suoi conoscenti.
In questo manga, il tema dell'anoressia non è quello centrale, nonostante le premesse. Il vero significato di questa storia - e forse di tutte le storie che ci parlano del disprezzo verso sè stessi - è riassunto nel titolo: Questo non è il mio corpo. Perchè il corpo di Noko non le appartiene. Che sia grassa o magra, ogni volta obbedisce ai dettami di qualcun'altro: del fidanzato, che la vuole grassa per sentirsi su un piano superiore a lei e cibarsi della sua insicurezza, o dei colleghi, che la vogliono magra per questioni estetiche. Della società tutta, più in generale, che impone un modello, spesso irraggiungibile. Il nostro corpo non ci appartiene perchè lo viviamo sempre in relazione a qualcun'altro.
Un altro tema si va però a intrecciare a questo: quello dell'identità, in primis, e infine della felicità. Noko è un personaggio con cui è difficile empatizzare: è una vittima nata. Non riesce a reagire ai soprusi e, anche davanti alle crudeltà più immotivate, invece di alzare la testa e reagire si piega, si fa piccola. Somatizza il male che ha dentro, lo trasforma in grasso. Nel momento in cui tutta la sua esistenza - per quanto misera - sembra crollarle addosso, riesce finalmente a prendere una decisione: dimagrire, a qualunque costo. Perchè la sua idea di felicità è inevitabilmente connessa a un corpo magro. Perdendo peso Noko non cerca la bellezza: cerca l'accettazione. Nel momento, però, in cui perderà peso, capirà che nulla è cambiato: il fidanzato la tratta peggio di prima, sul lavoro la situazione non è migliorata di una virgola. La felicità che cercava è lontana come lo era prima, perchè finalmente capisce che non è mai dipesa da un numero su una bilancia. Il peso - e l'anoressia dopo - non è che il sintomo di un malessere molto più radicato e profondo. Ma il rendersene conto - e comunque ci vorrà buona parte del manga - non è la conclusione felice della vicenda, perchè è come se Noko continuasse a vivere nell'inadeguatezza e nell'insicurezza. Prima aveva un obiettivo, una risposta. Adesso perfino questa sicurezza è crollata e non le rimane altro - di nuovo - che il cibo, che in un modo o nell'altro continua ad essere lo sfogo del suo male: prima quando abbondava e dopo quando se ne privava. In ogni caso, in tutto il manga è come se Noko si dibattesse alla ricerca di un'identità, di qualcosa in cui definirsi che non sia un'etichetta esterna ("grassa" o "magra"). Se, infine, ci sia riuscita o meno lo lascio scoprire a voi.
La vicenda di Noko si arricchisce con pochi ma determinanti comprimari. Su due in particolare vorrei concentrarmi: il fidanzato, Saito, e una collega, Mayumi.
Saito, come ho già scritto, è il fidanzato storico di Noko. La loro è una relazione malata e morbosa, che vede Saito usare Noko come sfogo delle sue frustrazione. Figlio unico e orfano di padre, Saito vive ancora con la madre: una donna che lo avvilisce continuamente, che lui quasi odia, ma con la quale ha instaurato a sua volta una relazione morbosa. Noko diventa per lui essenziale per ristabilire un senso di superiorità per un uomo che si sente un fallito. Nonostante sia un bell'uomo e la sua attenzione si concentri sulle belle ragazze, gli unici legami che riesce a stringere sono con donne con le quali si sente al sicuro, che può essere lui a rifiutare e a far sentire delle nullità. Noko è la donna perfetta, in quest'ottica. Accecata dalla sua bellezza, dall'incredulità di aver ottenuto l'attenzione di un uomo del genere, accetta i maltrattamenti e le umiliazioni, pronta a tutto pur di non essere lasciata sola. L'effettiva fragilità di Saito esplode nel momento in cui Noko inizia a dimagrire. Questa sua presa di posizione così forte lo mette in crisi e scatena il suo odio. Sente di non poterla più controllare e quindi Noko esaurisce per lui tutta la sua utilità.


Personaggio del tutto differente è Mayumi, che nel corso della storia veste panni quasi satanici. Lei è una collega di Noko, ma non una qualsiasi: è una capobranco, è la più bella e sicura di sè del gruppo, la più sfrontata e la più cattiva. Il suo segreto è quello di sembrare buona e dolce, ma la sua vera personalità viene fuori nel giro di poche pagine. Mayumi vive del confronto con persone come Noko: si nutre della sua infelicità e insicurezza e se ne rafforza. Di più: come dirà lei, odia le persone brutte. Perseguitare e distruggere Noko diventa così quasi una missione, soprattutto nel momento in cui quest'ultima cerca di riemergere dal limbo in cui è sprofondata. Le angherie di Mayumi diventano sempre più crudeli, fino a un livello che ha quasi dell'incredibile. Ma ciò che colpisce davvero di Mayumi è il ruolo che le viene affidato. Uno dei messaggi più forti e disturbanti del manga è che, in un mondo dominato dall'apparenza, la bellezza è garanzia di opportunità e trattamenti migliori. Ancora di più: direttamente dagli antichi greci, ancora un bell'aspetto diventa sinonimo di una bella personalità. Chi è bello può essere un diavolo ma nessuno ci crederà mai del tutto, nemmeno davanti all'evidenza. Come dirà Mayumi a Noko, è molto più facile attribuire azioni squallide a persone brutte. 
Ciò che più mi ha colpita è che il finale del manga, nonostante per certi aspetti possa sembrare positivo, in realtà non lo è per nulla. Nonostante la vittoria, si avverte un senso di sconfitta, di non concluso. Come sempre nella vita, aggiungo io.
Mentre leggevo, mi è venuta in mente un'autrice e un suo titolo in particolare. Ne parlo perchè i temi e le atmosfere buie e malate mi hanno fatto pensare più volte e con insistenza proprio a lei. Sto parlando di Grotesque di Natsuo Kirino, uno dei libri cardine della mia adolescenza, un malloppone di 800 pagine di puro dolore, quasi disgusto. Se avete letto questo manga e vi è piaciuto; se non leggete manga ma queste tematiche vi interessano; se cercato un libro crudele, io ve lo consiglio caldamente.
Detto questo, ho amato questo manga e ne sono rimasta enormemente colpita. Non mi aspettavo questo genere di storia e come vedete ne sono nate parecchie riflessioni. Adesso vorrei continuare questo mio viaggio in questo altro tipo di narrazione e, in attesa del Lucca Comics&Games, raccoglierò in giro informazioni per decidere con quale altro manga proseguire. Avete consigli da darmi? Siete appassionati di manga? Fatemi sapere nei commenti, che sono molto curiosa al riguardo.
Ci sentiamo la settimana prossima con una CineRecensione!

Virginia

lunedì 11 settembre 2017

Recensione: Il giardino delle delizie di Joyce Carol Oates

Titolo: Il giardino delle delizie
Autore: Joyce CArol Oates
Traduttore: Francesca Crescentini
Casa editrice: Il Saggiatore
Numero di pagine: 520
Formato: Cartaceo

Campi di segale sotto il sole abbacinante dell'Arkansas. Le mani strappano i frutti dalla terra, la terra prude e si mangia le mani. I braccianti arrancano nel meriggio insieme ai cavalli e il sogno americano è un abbaglio nell'afa, una zacchera di fango sulla schiena, un canto di nostalgia e speranza spezzato dalle spighe del grano. Clara è la figlia di due contadini e trascorre l'adolescenza a correre tra gli odori aspri ed erbosi delle piantagioni, e a rubacchiare oggetti insignificanti nei negozi per divertimento e noia. Vagheggia un futuro di emancipazione, ricchezza e amori idilliaci; fantastica di evadere dalla promiscua violenza del suo mondo provinciale gettandosi con abbandono in ogni avventura: prima con Lowry, fascinoso e ribelle apolide che la strappa alla famiglia e l'abbandona subito dopo averla ingravidata; poi con Revere, facoltoso uomo già sposato che Clara seduce in cambio di una promessa di stabilità economica; infine con suo figlio Swan - l'ennesima speranza di riscatto, l'estrema illusione di una riscossa impossibile -, destinato però a diventare un uomo violento e autodistruttivo e a far naufragare anche gli ultimi sogni della madre. Primo capitolo dell'Epopea americana di Joyce Carol Oates, "Il giardino delle delizie" racconta l'America proletaria degli anni Cinquanta e Sessanta, l'America white trash, avida di scalate sociali e rivincite, cianotica per i pugni incassati dai bastardi nelle bettole e dalla vita. Manescamente sordida, fumeggiante e sognatrice. Attraverso gli occhi di una ragazza fragile e bellissima, straziata dai desideri e dai demoni sociali ereditati, Oates tesse una storia di abusi e violenze, un ritratto realistico di quella impetuosa fiumana americana che travolge e annega i suoi figli, attirandoli ai margini dell'esistenza, senza possibilità di ritorno, nel miraggio di un paradiso terrestre, un giardino delle delizie che si rivela, alla fine, una terra desolata.

Come promesso, inauguro la settimana con la recensione della mia ultima lettura. E che lettura! Finalmente ho fatto la conoscenza con una delle penne più famose d'America: la prolifica Joyce Carol Oates. Attirata da questa Epopea americana in 4 volumi che il Saggiatore ha portato in Italia, mi sono buttata su un romanzo che mi aspettavo impegnativo ma che è riuscito a sposare una trama impegnata e dolorosa con uno stile scorrevole.
Durante questa lettura due mi sono parse le maggiori tematiche affrontate nella prospettiva di un'America degli inizi del Novecento: la condizione della donna e le fortissime disparità sociali, temi che a un certo punto si fondono nel personaggio di Clara, filo rosso di tutta la vicenda, protagonista di un libro mai a lei del tutto dichiarato. I nomi che intitolano le tre differenti parti sono infatti quelli dei tre uomini più importanti della sua vita: Carleton, il padre; Lowry, l'amore della sua vita; Swan, il figlio.
Tutto il libro è incentrato su una ricerca di riscatto di Clara. Lei che è "spazzatura bianca": non è nera ma vive nelle stesse condizioni di quelli di colore e così la sua famiglia e quelle degli altri braccianti. Non posseggono neanche un brandello di terra ma vivono di essa. Fin dalla più tenera età lavorano nei campi, vi si spezzano la schiena, vi invecchiano precocemente; la terra è testimone del fiorire delle loro speranze e del loro rapido morire nel giro di pochi anni, quando i sogni per il futuro diventano una massacrante quotidianità. Vive in catapecchie cadenti e sporche questa "feccia bianca". Non sanno quasi leggere, sono imbruttiti e sfiancati dalla vita che conducono e il germe della follia cova sotto alla determinazione prima e alla disperazione poi. E così la madre di Clara, sfiancata dalle innumerevoli gravidanze, perde prima la bellezza, poi la gioia, poi la ragione; e come lei tutte le altre donne. È un'umanità rabbiosamente animalesca quella della Oates. I bambini crescono fin troppo in fretta e diventano adulti quasi analfabeti, non potendo frequentare con continuità la scuola e abbandonati con disprezzo da una società che li percepisce come irrecuperabili.
In questo contesto nasce Clara. Fra le bestemmie, il lavoro che spacca le ossa e l'amarezza di una vita che non è all'altezza delle aspettative. E da questo cerca disperatamente di scappare. Lowry rappresenta la sua via di fuga, il ponte per un'esistenza diversa. Ma anche Lowry è solo l'ennesimo sogno che non può realizzarsi. Revere, invece, è la roccia solida a cui appoggiarsi, è lui che può donarle le chiavi di quel giardino delle delizie che Clara ha sempre invidiato. Un giardino che, ovviamente, si rivela molto meno perfetto di quanto le apparisse da fuori.
Come dicevo, un altro dei temi che mi ha colpito è quello della condizione femminile. In una realtà priva di riscatto, l'unico modo per fuggire, per Clara, è legarsi a un uomo. Prima il padre, poi Lowry, poi Revere. In tutti i casi, i sacrifici richiesti sono durissimi: una silenziosa acquiescenza, un'assoluta mancanza di volontà (soprattutto nel caso di Revere). Come astutamente nota Clara, non sono le donne che strillano e pretendono che alla fine ottengono ciò che vogliono, ma quelle che sono accondiscendenti, che non discutono mai, che non contrariano mai. Una realtà amara che sto ritrovando anche nella mia attuale lettura, di cui vi parlerò sicuramente in futuro.
Piuttosto significativa, in questo senso, è senz'altro la figura dell'anonima moglie di Revere. Una donna che sa dell'amante ma che non può fare nulla. Questo era uno dei destini per noi donne: l'impotenza. La condanna a dover sempre chinare la testa davanti alle decisioni di un uomo, chiunque egli sia. Una constatazione amara, in un'epoca dove ancora le donne che protestano contro i maltrattamenti sono guardate con disprezzo da molti uomini e schernite perfino da altre donne.
Come si può intuire, il libro mi è piaciuto. Primo romanzo di un'epopea ambiziosa che mira a descrivere l'America del Novecento e ad esplorare le diverse condizioni sociali e umane cui essa ha dato luogo.
Libro consigliatissimo. Personalmente non vedo l'ora di leggere i seguiti.
E voi? L'avete letto o conoscete altri lavori della Oates?

Virginia

venerdì 8 settembre 2017

Anteprima: Sei il confine della mia pelle di Antonietta Mirra

Titolo: Sei il confine della mia pelle
Autore: Antonietta Mirra
Casa editrice: Self-publishing
Pagine: 262
Data di uscita: 11 settembre
Link d'acquisto:https://www.amazon.it/dp/B075CL95PF
 Aggiungi su Goodreads:  https://www.goodreads.com/book/show/36184484-sei-il-confine-della-mia-pelle

Alexandra vive per il fratello malato e lotta contro la madre che non sa cosa significhi prendersi cura dei suoi figli. Quando trova lavoro come ballerina presso il Devil’s Night, il locale più esclusivo di Manhattan, è convinta che con i soldi che guadagnerà, riuscirà a salvare David dalla sua dipendenza. È l’unica cosa che le interessi davvero, almeno fino a quando… non incontra lui.
È bello da fare male e i suoi occhi verdi e profondi la incatenano ad un sogno proibito che non può permettersi di desiderare. Alexandra scopre che è un cliente abituale e… sa che non può essere suo.
Lui la incuriosisce, l’attrae in un modo disatteso e spiazzante, lui sembra la luce in tutto quel buio di sporco e di sofferenza… Lui si chiama Blake e da oggi sarà la sua dannazione.
Blake è un uomo abituato a nascondersi, alla solitudine e al silenzio.
Eppure quando incontra Alexandra, vorrebbe strapparsi la maschera che è costretto ad indossare e farla sua, mostrandole chi è realmente.
Ma non può.
Nemmeno quando un uomo dagli occhi di ghiaccio, potente e disarmante, irrompe nelle loro vite, minacciandone la libertà.
In un crescendo di avvenimenti, di scontri e di scelte inesorabili e dolorose, i due protagonisti si ameranno e si odieranno, si cercheranno e si faranno del male, si feriranno e si nutriranno l’uno del dolore dell’altra in un turbine passionale che non farà altro che rendere indissolubili i loro corpi come le loro anime. L’amore scoppierà, incatenerà e rapirà bruciando la pelle e superando ogni confine.
Alexandra e Blake dovranno combattere contro chi li vuole separare, contro chi minaccerà le persone che amano e contro se stessi perché il loro amore è talmente forte e famelico e feroce da rischiare di divorarli. Troveranno un equilibrio sopra la follia?

«La sua pelle distrugge ogni confine, il tocco delle sue mani risana il mio mondo.»

Cari lettori, bentornati. No, non sono morta, sono solo stata travolta da tutta una serie d'impegni che mi hanno tenuta lontana dal blog e dalla blogosfera. L'università sicuramente non aiuta, e se ci si aggiunge tutta un'altra serie di piccoli impedimenti... Finisce che il blog si prende una seconda vacanzaxD
Se sono qui, però, è per riprendere la mia attività di scribacchina della domenica. Sappiate che ho già qualche recensione (e CineRecensione muahahah) in serbo per voi, ma ho voluto riaprire i battenti con la segnalazione della prossima uscita del nuovo libro di Antonietta Mirra, blogger a sua volta e promettente autrice, che lo scorso maggio ha esordito con un romanzo dalle tinte oscure, Ogni notte vengo da te. Il libro che vi presento oggi è più soft, un romance più convenzionale, se ho ben capito, e con una cover decisamente accattivante.
Vi posto qui qualche estratto:

" Due occhi profondi e distanti mi inchiodarono nel punto esatto in cui ero, togliendomi ogni forza. Erano rapaci, suggestivi, inusuali. Attraverso la poca luce che ci circondava, sembravano splendere ammaliatori e ingannevoli. Si fissarono su di me per un tempo che mi parve infinito fino a quando piegò leggermente la testa di lato come se stesse guardando qualcosa di strano e di incomprensibile.
Me.
Strinse impercettibilmente gli occhi come se volesse mettere a fuoco più dettagli possibili e senza smettere di guardarmi si portò il bicchiere alle labbra, bevendone, in un unico sorso, tutto il contenuto. Solo allora mi accorsi della barba, scura e folta che gli incorniciava quelle labbra che con un gesto istintivo della mano, si pulì, passandoci il dito.
Non riuscivo a muovermi, non potevo fare un solo passo, i suoi occhi mi inchiodavano a lui come un incantesimo. Mi stavano risucchiando e li sentivo scorrere sulla pelle come se fossero mani in cerca di qualcosa. Cosa stavano cercando?
Quello sguardo sapeva di pericolo, di qualcosa di ambiguo che ti ansima dentro e che ti chiede di soddisfarlo. Uno sguardo così terribile da essere marmo e velluto nello stesso dannato istante.
Come si sopravvive all’impenetrabile che ti penetra dentro?"

"Diedi un ultimo sguardo al pubblico e poi chiusi gli occhi, immergendo le mani nei capelli ed alzandoli con fare voluttuoso e sensuale, abbassandomi leggermente e mettendo in bella mostra il mio culo che ormai il vestito copriva a malapena. Sentii subito le esclamazioni di approvazione e quelle che mi incitavano a continuare su quella strada.
Lasciai andare i capelli e con le mani iniziai ad accarezzarmi il corpo, facendole scivolare tra le gambe e percorrendole dall’interno, sopra il vestito, fino a raggiungere le caviglie, per poi risalire, alzando vistosamente l’abito e scoprendo parte della carne.
Fu quando aprii nuovamente gli occhi che mi scontrai con uno sguardo che mi raggelò all’istante.
E allo stesso tempo mi bruciò come le fiamme dell’inferno venute a reclamarmi.
Blake mi osservava dal fondo della sala, avvolto da un’oscurità magnetica, conturbante, spaventosa, ma così terribilmente eccitante. I suoi occhi dardeggiavano nei miei, erano incandescenti, imperiosi, ma anche caldi e letali. La sua espressione era seria e pericolosa, era un animale che aveva adocchiato la sua preda e non aveva nessuna intenzione di lasciarsela scappare.
Sentivo l’odore del suo odio, lui voleva farmelo sentire, voleva che capissi che mi odiava per quello che gli avevo detto e per il modo dannato in cui mi voleva.
Totalizzante e primordiale, avido e vorace.
Mi guardava come se la sua voglia di me giungesse dalle caverne più buie e nascoste, dagli antri più silenziosi ed inquietanti, dai recessi più perversi dell’anima.
Quanti anni hai, stasera?
Quanti me ne dai, bambina?"

Come si può notare bene da questi estratti, lo stile di Antonietta è diverso da quello del suo precedente romanzo, che per me ha i tratti di una vera favola gotica e uno stile poco convenzionale. Quest'ultimo lavoro, a giudicare dagli estratti, mantiene la sua evocativa scrittura ma la porta su un piano più consueto e, forse, meglio indirizzato per un pubblico di lettori meno ridotto.
Be', che dire, io per parte mia sono molto curiosa di vedere come verrà fuori questo romanzo e faccio un sacco di auguri ad Antonietta per questo suo secondo lavoro:)
Ci vediamo lunedì con la recensione di un libro!

Virginia