venerdì 24 giugno 2016

Recensione: Q di Luther Blisset

Titolo: Q
Autore: Luther Blisset
Casa editrice: Einaudi
Numero di pagine: 692
Formato: Cartaceo
Anno Domini 1555. Sopravvissuto a quarant'anni di lotte che hanno sconvolto l'Europa, un eretico dai mille nomi racconta la sua storia e quella del suo nemico, Q. Predicatori, mercenari, banchieri, stampatori di libri proibiti, principi e papi compongono l'affresco dei tumultuosi anni delle guerre di religione: dalla Germania di Lutero, al regno anabattista di Münster, all'Italia insidiata dall'Inquisizione. "Q" è l'esordio narrativo del rivoluzionario collettivo ora noto come Wu Ming.

L'ultimo articolo risale a un po' di tempo fa e me ne dispiace. Il motivo fondamentale è che adesso vi sto scrivendo dall'Inghilterra. Starò qui un mese (di cui sono già passate ormai quasi 2 settimane) per studiare l'inglese e, fra il college e la mia famiglia ospitante, l'idea di aggiornare il blog era quasi allucinante. Ora che il peggio è passato, torno con la recensione di un libro letto da me ormai un po' di tempo fa e di cui tengo a dirvi la mia opinione.
Q è un libro particolare. Ammetto che, prima di iniziarlo, mi faceva anche un po' paura. Si presenta come un libro dalle discrete dimensioni, che in mano decisamente si fa sentire; un libro impegnato, scritto dal collettivo Wu Ming (alle origini Luther Blisset), cinque autori che avrebbero scritto un capitolo a testa. Non dico altro sugli autori, preferisco concentrarmi sul romanzo, cercando di essere il più sintetica ed efficace possibile (sto scherzando).
Con cosa iniziare, per parlare di Q? Sicuramente con un incoraggiamento. Questo librone fila che è una meraviglia, la storia scorre senza intoppi e mi ha letteralmente incollata alle pagine. Mi sono dovuta ricredere: mi aspettavo un libro pesante e di difficile lettura e invece ho trovato un romanzo profondo e appassionante a un tempo. Sicuramente ha aiutato qualche trucchetto narrativo. La struttura della narrazione, infatti, è estremamente articolata e ha il pregio, se si riesce a raccapezzarsi nei primi capitoli, di rendere la storia molto scorrevole. I nostri narratori ricorrono infatti a continui balzi temporali: dal passato al futuro e viceversa, fino a far fumare le meningi. A questa tecnica - piuttosto intrigante, devo ammetterlo - si uniscono i capitoli, brevi e densi. Credo che sia impossibile annoiarsi con capitoli lunghi, in media, una facciata e mezzo. In sostanza, ho trovato assolutamente vincente questo modo di raccontare la storia.
Ma di cosa parla Q? Abbiamo davanti un romanzo storico, che ci racconta di quel sanguinoso periodo che segnò l'inizio della fine dell'egemonia Cattolica in Occidente. Tutto ha inizio con Lutero e con le sue Tesi contro le Indulgenze, e termina... Quando termina? Si può dire che sia mai terminata, questa storia? Questo racconto di giustizia e ingiustizia, di sangue e sesso, di libertà e schiavitù. Ancora oggi è attuale, anche se magari sono cambiati i nomi. Chi vi si cela dietro, però, è sempre lo stesso nemico: chi lotta per il potere e chi per la libertà. Allo stesso modo, vediamo come i nomi e le identità cambino continuamente, a dimostrazione che non è un nome a decidere chi siamo.
I Wu Ming narrano una storia di sangue. Il protagonista dai mille nomi attraversa uno dei ventenni più sanguinosi della storia alla ricerca di un senso - senso che crede di trovare nella religione - e trova l'amicizia, l'amore, la perdita, l'inganno. L'unica costante di una vita allo sbando saranno la ricerca e il cambiamento, che sembrano volgere sempre alla sconfitta. Finché l'unico senso a una vita di morte diventa arrivare al Traditore, a colui che ogni volta ha ingannato e tradito, Q. 
Come ho già detto, il libro tiene incollati alle pagine e scorre benissimo. L'unica cosa che mi sento di sottolineare, è una distanza di ideologia. Più sono andata avanti nella lettura, infatti, più mi sono convinta che il messaggio di questa storia sia la battaglia: combatti per ciò in cui credi e per la libertà. Fin troppo spesso, però, una battaglia portata avanti con le giuste motivazioni è poi diventata solo un gioco al massacro, una vendetta. Allargando il discorso, credo che nella Storia tutta non sia mai accaduto che una battaglia, anche se fondata su giusti sentimenti, portasse ad altro che miseria, squallore e disperazione. Un esempio è la Rivoluzione Francese: celebrata come la vittoria sull'oscurità e la fine dello strapotere dei ricchi, non ha portato ad altro che a una nuova forma di crudeltà e a nuovi dittatori. La Storia è piena di esempi simili ed io non sono un'esperta. Penso però che sia chiaro ciò che intendo e, leggendo, non ho potuto non fare, dentro di me, un'inquietante accostamento tra gli eretici dei Wu Ming e l'Isis dei tempi nostri. In generale, non si può imporre un'ideologia con la forza e il terrore e l'ignoranza si combatte solo con la conoscenza. 
Questo libro mi è piaciuto moltissimo e mi ha lasciato con molte riflessioni, come potete vedere. Concludo con una citazione:
Non voltarti indietro, non rimanere prigioniero della tua storia. Prendi il mare, recidi le cime che ti inchiodano a terra, tieni la mente a prua e salpa. Salpiamo. Un mondo finisce, un altro comincia, è questa l'Apocalisse e noi ci siamo in mezzo. Aiutami ad armare il battello che sfiderà la tempesta.

giovedì 9 giugno 2016

Chiacchiericcio#2: I libri, rifugio dell'anima

Rubrica a cadenza mensile inventata da me


In questo periodo, sto rileggendo Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Questa rilettura mi ha portato tutta una serie di riflessioni. Dovete sapere che io ho cominciato a leggere proprio con questo libro, il terzo della serie. Il giorno del mio ottavo compleanno mio zio me lo regalò e io, che fino a quell'età avevo letto poco e niente, mi immersi nelle avventure del maghetto più famoso del mondo e sancii il mio ingresso nel mondo dei lettori. Adesso, a più di dieci anni di distanza, il libro riporta i segni di tutto l'amore che vi riversai. La copertina è tenuta insieme con un bel po' di scotch, le pagine sono gialle e segnate da molte orecchie. Adesso sono molto più schizzinosa di un tempo: uso sempre il segnalibro, ho un occhio di riguardo per l'edizione e cerco di mantenere il libro nelle migliori condizioni possibili. In quest'ottica, tutti i miei Harry Potter stonano incredibilmente, eppure parlano al mio Io di bambina e non li cambierei mai con nuove edizioni patinate. Su queste pagine ingiallite c'è tutto l'amore di una bambina che per la prima volta scopriva un nuovo mondo, quello della carta stampata.                                                                      
Perchè leggiamo? Le risposte sono molteplici e si complicano con il passare del tempo, quando ciò che cerchiamo nei romanzi cambia. Prima di ogni cosa, però, è mia convinzione che leggiamo per amare. Qualunque sia il libro che ci ha segnato, che ha posato il primo mattone dei lettori che siamo adesso, lo abbiamo amato, ci ha preso alla pancia, ci ha stretto il cuore e ci ci è infiltrato nell'anima. Poi, crescendo, altre esigenze si sono formate. Perchè leggo, adesso? Perchè ho delle domande e voglio delle risposte - che, per inciso, non avrò mai -, perchè sono inquieta e voglio trovare una corrispondenza nelle inquietudini degli altri; perchè sono sola e ho paura e i libri sono stati - sono - casa e conforto.                                                              
Siamo esseri umani. Questo è un nome che ci siamo dati noi, per sentirci migliori degli animali. In realtà, infatti, questo siamo. Lottiamo per la sopravvivenza, per mangiare, procreare; ovunque è la dimostrazione che, insito in noi, c'è l'istinto di prevaricare il debole, di fare in modo che i nostri geni, non quelli di qualcun'altro, siano tramandati alle generazioni future. Abbelliamo tutto questo con riti e discorsi che dovrebbero mostrare a noi stessi che no, fra noi e le bestie non c'è più ormai nulla in comune. Eppure, la maggior parte di noi disdegna l'unica cosa che, in effetti, ci consente di abbandonare la nostra animalità e ci proietta in cielo: l'anima. No, niente discorsi religiosi. L'anima è quella scintilla di divinità - definiamola così - che è in ognuno di noi e che si manifesta nell'arte: quadri, statue, canzoni, balli. Libri.                                                
L'anima è quel pezzo di noi che è troppo fragile e che soccomberebbe. Per questo la maggior parte di noi lo nasconde, lo sopprime. Viviamo in una società che svaluta ciò che è interiorità per favorire un'esteriorità fatta di prevaricazione, violenza, cattiveria. Questa politica va dal grande al piccolo, dalla guerra al bulletto a scuola. Intento di questa società aggressiva è schiacciare quel po' di anima che, tremante, cerca di renderci diversi, migliori. E quindi la cultura diventa un semplice strumento e la lettura un passatempo per sfigati.                                               
Nel momento in cui scrivo qualcosa - un libro, un articolo, un messaggio - sto lanciando nel mare un pezzo di anima, nella speranza che qualcuno possa - voglia - accoglierlo, farlo suo, svilupparlo a suo modo e farlo fiorire in maniera personale, magari completamente opposta alla mia. E io, bambina lettrice, ho ritrovato un pezzetto di me stessa, l'eco della mia anima, tra le pagine di un libro per bambini, e da allora ne cerco di nuovi, forse nella speranza di sentirmi completa, un giorno.                                                     
I libri mi hanno difesa e accolta, quando il mondo fuori - e con fuori intendo fuori dalle pagine -  non lo faceva, e mi ha portata via da una realtà in cui i miei genitori litigavano di continuo e in cui a scuola mi prendevano tutti in giro. I libri sono stati il rifugio per la mia anima, quando nessun'altro sembrava curarsene.                              
Tutti questi pensieri hanno iniziato a vorticarmi in testa nel momento in cui ho tirato fuori quel libricino ingiallito e consunto dalla libreria. Da qua tutto è cominciato, ho pensato, non senza un tocco di teatralità. E questa è la tappa successiva. Il blog. Per vedere se tutti questi anni di ricerca - di un senso, di me stessa, della mia anima, di tutti e tre - hanno avuto un perchè, nella speranza di veder fiorire ciò che ho accolto e rielaborato in tanti anni di lettura, per dare un senso a ciò che magari non ce l'ha. 
Questo è per me leggere, questo sono i libri: un rifugio per la mia anima ferita, guarigione per i miei lividi, forza per andare oltre.                                                           
E per voi? Cos'è, cos'è stata la lettura? Siete d'accordo con me? Come avete iniziato a leggere?        
 Un saluto dalla vostra
Virginia                                                                                                                                                                         



venerdì 3 giugno 2016

Recensione: I Vicerè di Federico De Roberto

Titolo: I Vicerè
Autore: Federico De Roberto
Casa editrice: Newton Compton
Numero di pagine: 509
Formato: Cartaceo

Con "I Viceré" De Roberto raggiunge la pienezza e la forza espressiva del capolavoro. In questo romanzo storico, paragonabile per impianto e grandezza a "I Buddenbrook" di Thomas Mann, l'autore crea un equilibrio perfetto fra la rappresentazione del "decadimento fisico e morale d'una stirpe esausta" e le vicende dell'unificazione italiana. Il libro racconta la saga di una grande famiglia aristocratica siciliana di ascendenza spagnola, gli Uzeda. A partire dalla fatidica morte della capostipite, le vicende familiari si dipanano sullo sfondo di una Sicilia feudale e borbonica; e d'altra parte, la storia della Sicilia e dell'Italia entra, a poco a poco ma inarrestabile, nel recinto familiare.

I Vicerè è la storia degli Uzeda, nobile famiglia siciliana, le cui vicende personali si intrecciano con avvenimenti più grandi quali l'Unità d'Italia, Garibaldi e le riforme che, rapide, si susseguono e segnano il nuovo volto del Paese, avvenimenti che segnano il definitivo tramonto di un pezzo di storia che aveva visto i nobili e i potenti come assoluti protagonisti.

Il primo capitolo si apre con la morte di Teresa Uzeda, Principessa di Francalanza e tiranno familiare. Detentrice in vita di tutte le ricchezze e dell'autorità, la Principessa ha fatto il bello e il cattivo tempo, attirandosi le critiche feroci dei cognati e il risentimento dei suoi figli, compreso Raimondo, il suo preferito, che la Principessa ha favorito in tutto, a discapito di tutti gli altri. Nel momento in cui la capostipite muore, il grande interrogativo è come avrà disposto dei suoi averi nel testamento: avrà seguito, almeno alla fine, le consuetudini, favorendo il primogenito Giacomo, o avrà dato scandalo proteggendo fino all'ultimo Raimondo?
Il primo capitolo è estremamente caotico. De Roberto mette in scena una sfilza infinita di personaggi e il lettore dovrà aspettare i capitoli successivi per cominciare finalmente a barcamenarsi in tutto quel caos. La maestria di De Roberto si manifesta fin dagli inizi: delinea abilmente i personaggi e ognuno di loro si impone al lettore con una sua personalità ben definita. Abbiamo quindi i figli ed eredi della Principessa: Giacomo e Raimondo, Ferdinando e Lodovico, suo Crocifissa, Chiara e Lucrezia. Ci sono poi i cognati Uzeda, protagonisti della storia al pari dei figli: don Blasco, donna Ferdinanda la zitellona, don Eugenio e don Gaspare, duca d'Oragua. A loro si aggiungono i mariti e le mogli degli Uzeda: Matilde, moglie di Raimondo; la nuova Principessa, moglie di Giacomo; il marchese Federico, marito di Chiara. Infine, i figli: Consalvo e Teresa, figli di Giacomo. Le vicende di tutti questi Uzeda si mescolano anche a quelle di personaggi estranei alla famiglia: i Giulente, donna Graziella, la Sigaraia e donna Isabella Fersa (i nomi più importanti che mi vengono in mente).
 L'unico altro classico italiano da me letto, in precedenza, era stato il celebre I promessi sposi di Manzoni, letto per ragioni scolastiche (chissà, potrei decidere di rileggerlo per conto mio, un giorno). Ammetto che quella lettura - a dir poco indigesta - mi aveva scoraggiata dal procedere con altre letture nostrane. I Vicerè mi incuriosivano, però, quindi alla fine l'ho letto. Che dire? Mi è piaciuto moltissimo! Lo stile di De Roberto è scorrevole e ironico e mescola sapientemente la risata e la riflessione. Il risultato è un romanzo all'apparenza leggero (compatibilmente con uno stile un po' antiquato), ma che ritrae un'Italia gretta, meschina e assolutamente attuale.
Punto saliente de I Vicerè è senza dubbio il fatto di intrecciare storia familiare e Storia. In questo caso, De Roberto ci narra di un avvenimento fondamentale per noi: l'Unità d'Italia. Accanto agli Uzeda, dunque, leggiamo nomi storici e familiari quali Garibaldi, Bixio e Cavour. In questa nuova Italia unita, non c'è più posto per i borbonici conservatori e il popolo vive una nuova rivincita. Gli Uzeda, gelosi del loro potere e del loro prestigio, si spaccano a metà, ma sempre rimanendo sè stessi: da una parte gli ultraconservatori (come don Blasco e donna Ferdinanda), dall'altra quelli che capiscono che bisogna adattarsi alla nuova situazione e spremere il più possibile. Tra questi ultimi troviamo il duca d'Oragua, codardo approfittatore che, a forza di tenere la parte ai conservatori e ai liberali contemporaneamente, riuscirà a guadagnarsi la nomea di eroe e ad essere deputato di Sicilia; e troviamo anche Consalvo che, desideroso di potere, capirà che il modo più veloce per ottenerlo è quello di avere un ruolo politico di spicco in questa nuova Italia. Perfetto esempio della mentalità Uzeda sarà la celebre frase di Giacomo che, rivolgendosi al piccolo Consalvo, gli indicherà lo zio deputato e gli dirà:
"Quando c'erano i Vicerè, i nostri erano Vicerè; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato."
Chi sono quindi questi Uzeda, questi Vicerè? Altro non sono che un'accozzaglia di ignoranti e taccagni, di furbi e indifferenti, di viziosi e snob. In una Sicilia dove il nome conta più dei fatti, il sangue blu degli Uzeda li protegge da ogni rappresaglia e perfino sulla spinta dell'Italia unita il rispetto per le convenzioni e la timorosa ammirazione per il rango superiore basterà un po' di scaltrezza per non perdere il privilegio accumulato in anni di furberie e furti.
In quarta di copertina, I Vicerè viene paragonato al celebre romanzo di Thomas Mann I Buddenbrook. Entrambi i romanzi si incentrano sulla storia di una famiglia ricca e potente e del suo evolversi con il trascorrere del tempo. Trovo però che fra i due romanzi vi sia una differenza fondamentale. I Buddenbrook, infatti, perdono ricchezza e prestigio, fino all'estinzione del nome, tutto a causa della Fortuna. La Fortuna che, come da saggezza popolare, aiuta gli audaci, toglie il suo favore a una famiglia che non osa più, che perde intuito e spregiudicatezza, rifugiandosi in commerci più sicuri e, quindi, più meschini. La "corruzione del sangue" viene dunque dall'interno, dai membri stessi della famiglia. Gli Uzeda, invece, grazie alla loro faccia tosta e alla loro scaltrezza, riescono a mantenere intatto il loro potere, cambiando nome ma non essenza, come spiega Consalvo a donna Ferdinanda: alla fine, gli Uzeda sono gli stessi violenti, pazzi e ostinati che, secoli prima, si davano battaglia tra padre e figlio e depredavano i vicini.
Un altro argomento affrontato da De Roberto è quello, fondamentale vista l'ambientazione del romanzo, della religione. La religione ha ampio spazio nella storia, ma è sempre delineata in termini critici e spregiativi. Don Blasco è un monaco benedettino, così come Lodovico; Consalvo viene educato in monastero e un'altra figlia della Principessa è suora - Suor Crocifissa. I monaci di De Roberto mangiano a quattro palmenti, giocano d'azzardo, hanno più amanti e figli e dormono fino a tardi. Insomma, i sacrifici sono pochi ma, nonostante ciò, gli Uzeda destinati alla vita di fede covano un feroce risentimento per ciò che è stato loro imposto. Questo è il caso di don Blasco, che desidera una vita di successo, desidera fare soldi e farsi conoscere e si sente sacrificato al monastero, nonostante tutto il cibo, il vino e le tre amanti. Diversa è la situazione di Lodovico. La Principessa lo costrinse a farsi frate per cedere il suo posto a Raimondo. Per questo Lodovico, che ha la capacità di guadagnarsi il favore dei superiori, aspetta solo la rivincita. Rivincita che, al momento opportuno, riesce a prendersi. Il destino peggiore è però riservato alle donne. Destinate al chiostro, a matrimoni vantaggiosi o a restare zitelle per non dividere il patrimonio di famiglia, non hanno voce in capitolo e su di loro vengono fatte le maggiori pressioni. Se un matrimonio è rifiutato, quindi, si guadagnano il biasimo dei genitori e della parentela tutta e si beccano le paternali dei preti di famiglia. Le Uzeda, famose per la loro testardaggine, tengono duro, ma solo una di loro riuscirà, con grandi lotte, ad ottenere ciò che vuole.
Come già ho detto, la forza di questo romanzo sono i personaggi. Rivestendo vari ruoli (nobili, politici, religiosi), gli Uzeda riescono a dare al lettore un'idea di come funzionavano le cose in vari ambiti. Ciò che colpisce, e non in positivo, è che ogni cosa è corrotta e guasta, e non diversa da com'è adesso. Nonostante questo, gli Uzeda riescono ad attirarsi, se non le simpatie, quantomeno gli interessi del lettore. Spesso ho riso delle loro uscite (in particolare con l'inestimabile don Blasco) e capisco la fascinazione dei compaesani, che alternano notizie dalla politica della nuova Italia al nuovo scandalo degli Uzeda. Perchè sono tutto uno scandalo, questi Vicerè! Ognuno vuol fare quello che gli pare e si creano continui scontri e tensioni, con le alleanze che cambiano di volta in volta, con contraddizioni continue, stramberie e pettegolezzo continuo. Non ci si può annoiare a leggere degli Uzeda, insomma.
Lo consiglio a tutti, perchè è una lettura leggera e impegnata a un tempo e tiene piacevolmente avvinto il lettore per tutte le 500 pagine.